Presentata ieri mattina l’opera di Francesco Cilea che stasera alle ore 21, verrà rappresentata al teatro Verdi per la prima volta a centoventi anni dalla prima. Daniel Oren sul podio dirigerà un cast che vanta nel ruolo dei protagonisti il tenore Charles Castronovo ed Ermonela Jaho, Lo spettacolo andrà quindi in trasferta sia al Cilea di Reggio Calabria che a Malaga.
di OLGA CHIEFFI
Nel paesaggio dell’affermazione dell’opera detta verista Francesco Cilea ha incarnato una corda in parte estranea, per la sobrietà di una scrittura poco tendente al comizio e alle passioni della cronaca nera. Una vena compositiva, la sua, tenue ed elegante, discostantesi dalla tonalità bruta e aggressiva dei suoi compagni di manifesto e vivissima in Adriana Lecouvreur che debutta stasera alle ore 21, in prima assoluta per Salerno, al massimo cittadino, nell’anno celebrativo dell’opera, che sarà diretta ed eseguita da grandi interpetri, quali Daniel Oren sul podio dell’Orchestra Filarmonica Salernitana, che dirigerà unitamente al coro, preparato da Armando Tasso, ed il tenore Charles Castronovo, con al suo fianco il soprano Ermonela Jaho nei ruoli dei protagonisti Maurizio e Adriana. E’ Adriana Lecouvreur una delle opere cult di Daniel Oren, che ieri mattina ha presentato in duo con Antonio Marzullo, ed è l’opera più attesa di questo cartellone, con un cast costruito ad hoc, che oltre ai protagonisti saluta, Francesco Pittari nel ruolo dell’abate di Chazeuil, Misha Kiria in Michonnet, Fabio Previati che vestirà i panni di Quinault, Enzo Peroni quelli di Poisson, e ancora Maurizio Bove sarà un maggiordomo, Teresa Romano darà voce alla principessa di Bouillon, affiancata da Carlo Striuli che sarà il suo principe, Mad.lla Jovenot, avrà la voce di Cristin Arsenova, figlia d’arte ed ex gonghista all’arena di Verona, come ha raccontato ieri mattina, un ispiratissimo Daniel Oren, mentre Lorrie Garcìa sarà Mad.lla Dangeville, diretti dal regista Renzo Giacchieri il quale ne firma anche i costumi unitamente allo scenografo Alfredo Troisi. 1902: Adriana Lecouvreur fa il pari con Pellèas et Melisande di Claude Debussy, che si apprestava a mutar pelle all’opera in musica. I ragazzi del liceo scientifico Andrea Genoino di Cava de’ Tirreni, presenti alla generale e ieri in conferenza stampa, sono rimasti, infatti, ammaliati, direi avvolti dalla musica di quest’opera e non a torto, poiché come già nel 1904 si scriveva in recensione, e come ha sottolineato Daniel Oren, essa è concepita con criterio di musicista, non di operista, in altri termini, la declamazione si muove arbitraria su scene che poco dicono. La musica fila snella e leggera, ma il legame logico fra sentimenti particolari espressi nelle parole e sfondo emozionale offerto dalla musica è, spesso, solo un desiderio. Era giusto questo il dramma segreto dell’intera esperienza verista. Daniel Oren, come Renzo Giacchieri, si affideranno alla bellezza della pagina stasera: un’orchestra leggera, accorta, ma pur sempre fondata sulla glorificazione dell’inciso cantabile, il consueto Wagner da filodrammatica, ma mediato attraverso la réduction massenetiana, (si pensi al fluttuare di quartine di semicrome sul pedale di Sib che, al levar del sipario dell’atto IV, avanti il monologo di Michonnet, vorrebbe riproporci, sublimato in cafè-chantant, niente meno che il tema dell’ondeggiamento del Reno del Rheingold), e soprattutto l’irriducibile edonismo canoro, retrocesso talvolta sin ai vagheggiamenti della scrittura “ornata”. La misura delle più note melodie di Adriana, da “La dolcissima effigie” a “Io son l’umile ancella” sino a “Poveri fiori”, è quella delle quattro battute più quattro, ma provarsi a collegarne l’incisività con lo struggimento della memoria, ecco un bel problema, perché qui il divorzio tra parola e immagine musicale accampa diritti affatto identici a quelli codificati in una Fedora o in un Fritz. Ed allora ecco i cantanti “in punta di bacchetta” come ha spiegato il Maestro Oren, poiché non si tratterà di dar privilegio mnestico all’intera, organica curva melodica, ma all’inciso, all’interezione, all’attacco addirittura della romanza cosiddetta, e acconciarvisi all’interno in modo definitivo, poiché questo è l’unico modo di ricostituire le emozioni di un patrimonio dovizioso. Basilare in quest’opera è il concetto di metateatro su cui si basa il primo atto e, in particolare, il terzo dove il Principe invita nel suo palazzo diversi ospiti per farli assistere alla rappresentazione del balletto Il giudizio di Paride, in cui otto ballerini danzeranno sulle coreografie di Corona Paone. “Siamo nel 1730 – ha rivelato il regista Renzo Giacchieri – e mi sono affidato fedelmente al gusto e all’eleganza dell’ epoca. Piaceva e piace il gioco del teatro nel teatro, il contrasto tra il mondo della nobiltà e il palcoscenico, un Settecento ricreato tra intrighi politici e cicisbei, tra linee rococò, ridotte a una dimensione più a misura d’uomo, soprattutto nella decorazione d’interni, nell’arredamento. L’idea del metateatro è stata risolta nel primo atto con il retro palco della Comedie Française simboleggiato dal sipario attraverso cui si guarda in platea e per il terzo, si è ricostruito il teatrino di corte del principe di Bouillon, mentre sul linoleum bianco si gioca con le luci, tra gli ambienti”.