di OLGA CHIEFFI
Luca De Filippo, dopo il successo de’ “Le bugie con le gambe lunghe”, ritorna a Salerno, riconquistandola con “La grande magia”. Il grande figlio d’arte fa sua una platea particolare come la nostra, con un’opera che forse segna uno dei massimi punti dell’intelligenza teatrale di Eduardo, di non semplice concettualità. In sala, dopo il ricordo dell’ariostesco mago Atlante, evocato da Stefano Accorsi, è certamente aleggiato quello del pirandelliano mago Cotrone, che non ha certo schiacciato il mago Otto Marvuglia, interpretato eccellentemente dallo stesso Luca De Filippo, il quale ha ricevuto il plauso anche nei panni di regista dell’opera, che osa con un trucco, certamente più scoperto, di seguire l’altro nel tentativo di sostituire alla realtà la capacità creativa della fantasia; un mondo evaso dai limiti del naturale e del possibile per assumere le forme estreme dell’illusione, quando la fede regge; un mondo che offre come cose concrete le immagini della memoria, “certe sensazioni che possono semplicemente definirsi fenomeni della coscienza atavica”.
Luca si è presentato con ancora un’altra variante del borghese, Calogero Di Spelta, cui ha dato voce un convincente Massimo De Matteo, che indossa una corazza prevalentemente verbale (“Per me il pane è pane, il vino è vino, e l’acqua di mare è amara e salata”) entro la quale, tuttavia, cova le proprie frustrazioni. La sua corazza verbale, s’è rivoltata in “non verbale”, consolidandosi sul non dire, su quella mancanza di fiducia nell’interlocutore che inibisce la comunicazione autentica delle parole. Così appare la coppia Di Spelta al pubblico finto, i clienti dell’albergo Metropole, i quali assistono al vero teatro di quei due che sono diventati l’attrazione principale della stagione. Il loro dramma si svolge nella sfera chiusa dell’io: per diventare azione ha bisogno che un mago lo trasformi in spettacolo, trasferendolo dal teatro del mondo, nel mondo del teatro. Al piccolo motoscafo “indossato” da Mariano D’Albino (Antonio D’Avino), spetta il compito di attraversare la quarta parete, che nella sua ostentata allusività risucchia lo spettatore in uno spazio artistico che implica la sua partecipazione al gioco del teatro e della vita. Il gioco della vita lo si tocca nella misera casa di Otto Marvuglia: il risvolto dell’illusione comica appare sempre nel teatro eduardiano ingombro di vissuto, il retrobottega dell’Arte si mescola al massimo grado con la quotidianità. Vi ritroviamo Zaira, (Carolina Rosi) donna impossibile per il marito-partner, insieme agli altri guitti , tanto più realistici dei personaggi del teatro del mondo, perché qui si muore davvero. Davanti alla morte gli espedienti dell’illusionista umano non bastano più, stavolta Otto Marvuglia ammette che il gioco dipende da un Prestigiatore più importante, il cui trucco non si può conoscere.
La morte di Amelia Recchia (Giulia Pica) e l’attraversamento del boccascena da parte di Calogero di Spelta si svolgono in contemporanea, vita, fame e morte da una parte, l’ illusione di continuare a vivere dall’altra, tentando il “grande tuffo” di cartesiana memoria. Dopo quattro anni di analisi e autoanalisi la terapia ludica di Otto Marvuglia, che ha creato un suo doppio, fa dire a Calogero finalmente la verità su se stesso , quella verità che sola può fargli riacquistare la fede nei rapporti interumani, “Mia moglie sta qui dentro , l’ho rinchiusa io! Ero diventato egoista….”. Calogero sta per aprire la scatola, ma Marta appare “fuori tempo”, in anticipo, e Calogero rifiuta di ascoltarla, non può capire. Rifiutare il linguaggio comunicante significa rifiutare il mondo, espulsi con fragore gli altri, anche il meraviglioso giocoliere è ridotto a un’immagine. Ritorna alla mente la visione estatica di Lucariello, il finale di Natale in casa Cupiello, ma Calogero è senza eredi, nessun altro uomo può più intendere il messaggio. Il suo gioco non è più a due piani ma a uno solo, egli parla soltanto con la scatola di un palcoscenico che nel teatro di Eduardo non potrà mai rappresentare il vero teatro, quello del custode del suo San Ferdinando, o di Campese de’ “L’arte della commedia”. Il “finale di partita” si chiude con l’allucinata vittoria dell’Illusione, divenuta tanto alienante da doversi sostituire alla Realtà.