Si è chiusa con bel successo di critica e pubblico la VII edizione di Mutaverso teatro, firmata da Vincenzo Albano, nel segno di Ablativo che ha ospitato il collettivo Unterwasser
di GEMMA CRISCUOLI
“È possibile sfuggire alla mente?” si chiedeva Silvia Plath. La risposta è, di certo, no, ma si può impedire che diventi una prigione in cui lasciarsi murare vivi. Emozionante percorso sulle trappole dell’io e sulla riappropriazione del sé, “Untold” è lo spettacolo del collettivo Unterwasser che ha concluso tra gli applausi, al Teatro Ghirelli, la settima edizione di Mutaverso, il progetto a cura dell’associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Ideato, creato e interpretato da Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio su musiche originali di Posho e luci di Matteo Rubagotti, l’allestimento è basato sulla dialettica esterno/interno, chiusura/apertura, come risulta evidente fin dall’inizio, quando le tre interpreti, prima di dare inizio alla vicenda, si collocano in strutture di metallo, dove la luce rende visibili i loro profili. Quelle strutture, che alludono al ripiegamento interiore, ma anche al luogo in cui si è confinati sul piano sociale, mostrano, in una, un complicato intrico di fili che lascia spazio, nelle altre due, a una più netta linearità, rispecchiando, in tal modo, l’essenza delle scelte delle performer e dell’esistenza : la convivenza della semplicità e della complessità.
Le voci registrate fuori campo, per pochi istanti, guidano lo spettatore a comprendere che il viaggio percorrerà quello che si nasconde nel profondo e che, per quanto ignorato o dissimulato, torna a sovvertire l’ordinario. “Se potessi fermare la caduta”, “Se riuscissi a stare nei miei occhi”, “Un esercito nero nelle viscere”, “Stanca di trovare cadaveri nel baule delle stoffe” sono tutte frasi che esprimono il vampirismo del rimosso, il non detto del titolo che risucchia nel buio chi non ha la forza di donarsi nuove possibilità. La vicenda si sviluppa in silenzio, proiettando su teli bianchi le ombre prodotte da torce, recipienti, piccoli pupazzi, superfici, elementi scenici, per cui si coglie, in ogni momento, l’immagine in cui perdersi e ciò che materialmente la produce. È, in effetti proprio del teatro rendere indistinguibili il fittizio e il reale, ma, nel mettersi totalmente in gioco, fino a sovrapporsi e dare vita alle figure, le artiste evidenziano l’urgenza di affrontare a viso aperto la parte misteriosa di un’individualità, anche se questo significa precipitare in un abisso.
Le tre presenze, infatti, (una in cucina, una in una vasca, un’altra in uno studio) rivivono il passato tra contrasti, folle di visi (o di pensieri?) fotografie, esperienze e tutte cadono in un pozzo senza fondo: è talmente facile scomparire in sé stessi, mentre il caos della città e delle altre vite continua indisturbato. Restare immobili ad ascoltare il proprio silenzio non può però, durare per sempre: bisogna “mettere il muso fuori dalla tana”, “ricucire il corpo”, comprendere se ha ancora un senso sentirsi addosso il calore del sole. Le tre escono e si ritrovano, non a caso, nello scompartimento di un treno, simbolo di dinamismo. Si avvicinano, si confrontano, ridono, osservano il paesaggio, ma soprattutto si riscoprono vive, disposte ad affrontare quel che accadrà.
Non possono che salutare il pubblico tenendosi per mano: abbiamo tutti bisogno di avvicinarci a chi, come noi, vuole uscire dall’ombra infinita nascosta dietro il nostro sguardo.