Silvia Lelli legge la partitura del nostro massimo attraverso il suo sguardo che fa suo l’ “umbratile” del sentire musicale di Daniel Oren, quale quarta sezione della mostra realizzata da Tempi Moderni
di OLGA CHIEFFI
“La luce, elemento prezioso, vuol essere propinata avaramente come un filtro. Il palcoscenico non è che un pozzo nero e profondo da esplorare con la lanterna cieca, e se il macchinista apre tutte le valvole dell’elettricità, diventa un buco enorme e deserto, uno spogliatoio miserabile(…)In un palcoscenico pieno d’ombra e di mistero i personaggi, questi prigionieri del melodramma che tentano di liberarsi contorcendosi michelangiolescamente, passeranno a traverso tutte le fasi della illuminazione come la luna nel corso del suo viaggio notturno. La luce li cercherà allora nella semioscurità, li sceglierà, e colpirà con la sua mira i loro corpi mobili e plastici. Mentre cantano ornerà viva e granulosa i loro gesti di argento. Brucerà sui loro contorni come pepe di Caienna che arde; farà nascere riflessi e balzare lampeggiamenti di gelatina dalla seta cangiante dei loro costumi, investirà con un riverbero pieno di fermento le loro facce stravolte, frantumandosi come una bottiglia di vetriolo”. Sono le parole di Bruno Barilli da “Il paese del melodramma” che sposano a pieno l’essenza della mostra “Ombre e penombre” del teatro Verdi un lavoro city specific di Silvia Lelli dedicato al nostro massimo. Quindici immagini realizzate all’interno del teatro e durante le prove e alla prima dello spettacolo Manon Lescaut con l’orchestra diretta dal maestro Daniel Oren, che verrà inaugurata domattina, intorno alle 11,30 nel foyer, quarta sezione della mostra Sguardi proposta da Tempi Moderni di Marco Russo.
“Ho inteso fotografare il vostro teatro – ci ha rivelato Silvia Lelli – per rendervi luoghi, attrezzi, appunto ombre e penombre, che il pubblico non nota, non può vedere, come il sottopalco, sede di congegni, argani, che azionano gli eventuali ponti elevabili e i girevoli; il retropalco, lo spazio in fondo al palcoscenico dove si completa il montaggio e lo smontaggio. E ancora, la soffitta che si sviluppa in verticale sopra il piano scenico, il fascino dei tiri che sostengono sia le scenografie che le americane delle luci”. “Sono stata accolta con aria interrogativa dai macchinisti del teatro il primo giorno, in tutti i teatri loro sono un po’ burberi poi tutto si è sciolto e sono entrata a far parte della “famiglia”. “Per fotografare bisogna saper attendere. Quando, ad esempio, ho visto che i macchinisti, avevano tirato giù le americane per montare i fari, avevo capito che fosse giunto il mio momento e ho chiesto di poter fare qualche immagine.
Poi, ho azzardato la richiesta se mai avessero potuto accendere i fari, quindi, la maschera severa è sparita e abbiamo giocato anche coi colori”. L’attesa è un termine declinabile in innumerevoli modi: Silvia lelli ci consegnerà le proprie originali e personali chiavi, per immergerci in quel tempo fermo, carico di tensione, di nascite, di pensieri, parole, sguardi, profumi condivisi, che è il nostro teatro, calandoci in quell’istante vivo, elemento simbolico di uno stato di grazia, che penetrato, ci donerà, attraverso le sue immagini, la condizione preferenziale di innocenza primigenia, che ci permetterà di mettere in sinergia la mente e il cuore, la ragione e le emozioni, il passato e il presente, le nuove generazioni con quelle passate, quello che si può raccontare con quello che resta misterioso, quello che gli occhi riescono a vedere con quello che solo il cuore può sentire. Ragioni estetiche quelle di Silvia Lelli, che hanno sposato anche quelle di Daniel Oren in questa Manon Lescaut e nel suo Puccini.
Lei lo aveva fotografato da giovanissimo e il suo sguardo lo ha ritrovato dopo diversi decenni trascorsi sui podi di tutto il mondo, a Salerno, nel suo teatro, con la prima opera da lui diretta in assoluto. I linguaggi delle arti sono osmotici, si parla di toni nelle arti visive, ma si dice che un’ orchestra possegga e offra una tavolozza di colori. E’ caratteristica proprio della lettura di Daniel Oren l’uso di ombre e penombre, in particolare in Puccini. “Nella nostra anima c’è un’incrinatura, e il suono che essa dà, quando si riesce a toccarla, è come quella di un vaso prezioso”. Le parole sono di Kandinsky e Oren in questa Manon ha sottolineato le fasi salienti dell’azione drammatica con quella tensione espressiva che risponde alle concrete esigenze teatrali, dosando con duttile sensibilità il linguaggio sonoro, cercando sempre la giusta balance tra l’accento declamatorio e la melodia spiegata, riuscendo, in questo modo a far sì che i momenti lirici si compenetrassero con quelli drammatici, in un continuo e animato mutare di prospettive entro cui si è attuato lo svolgimento scenico: da qualche un obiettivo ha ripreso, tra “ombre e penombre”, la sua empatica visione musicale.