Il LXXI Ravello Festival si avvia alla chiusura con un innovativa lettura di Kent Nagano del “Das Rheingold” di Richard Wagner. Impeccabili Alberich (Daniel Schmutzhard, cognomen omen?) e Wotan (Simon Bailey); meno i già defilati Donner und Froh (Köninger e Akzeybek); di interesse le voci femminili, dive in scena e fuori. Serata da sold out
di ALFONSO MAURO
Il quatriduo del mondo trasmogrifica in una quattr’anni all’aiuola ove Richard è demiurgo tutelare: L’oro del Reno cerchia un pressoché perfetto nonché filologicamente indagato canto prelusivo della celeberrima Tetralogia; e il suono è δράματος πρόσωπον a sé, con un organico orchestrale quadratissimo e di sostanzialmente inappuntabile peso specifico. La balza di Costa in tutto benedetta tranne che in acustica trova infatti congeniale il ritrovato suono di Wagner proprio nella sua formidabile mole sonica, applauditissima massime in considerazione delle difficoltà tese da tanta eroica impresa — non ultimo il vento che ha vieppiù funestata villa Rufolo. E se anni di consuetudinario coro asseriscono vox populi al festivalle si vada più per l’insieme di location e musica che per la musica stricto sensu, la vox dei (deorum Germanorum) del 20 agosto è stata tra quelle ad apoteotizzare la musica protagonista. Ottimale l’amplificazione audio delle sapienti e talentuose e a tratti rimarchevolmente gigioneggianti voci, e fondamentale, quantunque meno eccellente, l’assistenza testuale a Dresdner Festspielorchester e Concerto Köln dagli schermi ove occhieggiavano sottotitoli e note di scena — se tecnica (e dunque talvolta malfunzionante) l’apparizione del libretto, prodigiosa invece quella di ninfe, nani, dèi, giganti, da un sognante e vespertino retroscena come a’ numi conviensi. Come al mito; come al Sacro.
Se l’acquoreo ninfale della sommozzatrice scena prima ha la serotina amalfitana a suo Reno correlativo-oggettivo, è più volte e con quasi commovente estro suggerito la vetta ravellese essere la diva rocca del Walhalla — o, se preferisce il commentatore impertinente in tempi d’overtourism, la #amalficoast dove anche gli “dèi” sono irresponsabili. Intanto è serata da sold out. E va a onor del festival detto che, quantunque la Costa stia ormai per voce del verbo costare, con pernottamenti a Ravello più che duplicati in prezzo (effetto agosto più che Wagner), il biglietto d’ingresso sia rimasto di stesso costo. Impeccabili Alberich (Daniel Schmutzhard, cognomen omen?) e Wotan (Simon Bailey); meno i già defilati Donner und Froh (Köninger e Akzeybek); di interesse le voci femminili, dive in scena e fuori. Schiacciante invece, ovviamente, la responsabilità di governare tanta machina, e la bacchetta dello statunitense Kent Nagano è sì chiara e ferma (diremmo enciclopedica) da non necessitare d’ulteriori lodi. E tuttavia arduo ben coordinare un centro di gravità nell’impermanenza del confluire/defluire tematico: ad es. fuori tempo le 18 incudini fuori-scena tintinnabulanti in formatino più trasportabile; ma le interpretazioni sbalordiscono, sorprendono, e sbigottiscono quando gli schiavizzati nibelunghi urlano sgomenti oribus orchestrae! Una buona intuizione forse attribuibile a Nagano. Ottime le telluriche eruzioni delle altre percussioni; impareggiabili le tube di Wagner in Sib; un Niagara d’arpe; pedissequamente seguito il fraseggio leggero e grave, lieve e nervoso, spigoloso, tutto sostanza scenica, serpeggiante (indossa il Tarnhelm!) durezze bombastiche a quasi-cameristiche liricità. Dal peccato triviale all’incendio del paradiso, l’universo musicale in noce schiusa e richiusa a comando di sapiente direzione e provata tournee di un prodotto in esclusiva per l’Italia.
È in effetti d’uopo alla forma in-concerto delle performances d’opera mediare tra una proposizione sic et simpliciter e qualche strizzata di wotanesco occhio al coturno che avrebbe invece calzato sull’assito; bene infatti il padre degli Asi che non rinuncia alla benda da semiguercio, i musici-nibelunghi (il secondo grido incute melomane timore!), un Mime (Thomas Ebenstein) istrione su tutti, un convincente fratricidio di Fasolt… e forse finanche il vento sdrucispartiti e rovescialeggii (i composti germanofilini si sprecano…) che per mirabile malia peggiora quando Donner chiama tuono e tempesta. Hammerschlag! La macchina del tuono stava ominosa appollaiata sin dal principio. Ma è qui che un po’ di stanchezza assale: qualche farfuglio d’arco, sfiato ottonato, nervosismo d’arpa; o meno infelice sarebbe stato far implorare le Rheinmädchen dal basso e non dall’alto; o l’attesissimo insieme del finale che inciampa sull’arcobaleno troppo soffrendo; o, pur non volendo osare impudenti pagelle per materia tanto supermassiva, per voce e posizione non emoziona Erda (Gerhild Romberger) sprecata la sua epifanica visione… Stanchezza anche di pubblico, con numerosi arresisi (stupidamente) a 20/15 minuti dalla fine e costringenti fila intere ad alzarsi onde far loco; Richard li avrebbe usati a tirassegno d’archibugiate.
Ma inarrestabilmente efflusiva la standing ovation, gragnola d’applausi convinti per una produzione e performance titanica nell’insieme, magnificamente persuasiva e mirabilmente governata, e che in metamorfosi si fa escheriana nei Leitmotive che frugano rupi, scalee, rovine e calette notturne; il Theatrum Mundi cinge il suo cerchio in sfera, e la rotondità della perfezione è non lungi a portata di dito dell’uditorio come “aureo gingillo”, “Kinderspiel”: l’anello maldicente e palingenetico che conquista e insieme danna il cosmo.