Il teatro Verdi ha inaugurato il settembre di concerti, nella chiesa di San Benedetto, con l’oboe di Francesco Di Rosa e sette studenti del Martucci in orchestra all’Opera di stato albanese, per l’evento d’apertura, tra Rachmaninov e Mahler
di OLGA CHIEFFI
La musica costruisce un ponte che conduce verso il tempo della vita. Colui che ascolta e colui che suona vi ci trovano un amalgama perduto di passato, presente e futuro. Su questo ponte, finchè la musica persiste, si andrà avanti e indietro. Sabato sera ci siamo ritrovati su questo ponte di musica che ha legato, nei due concerti inaugurali del settembre del Teatro Verdi e dell’Opera di Tirana, secoli, generazioni di musicisti, luoghi. Il concerto della Pace, promosso dalla direzione artistica del Teatro Verdi di Salerno,rappresentata in sala dal Maestro Antonio Marzullo, ha ospitato l’ensemble tutto al femminile dell’Orchestra da camera del Teatro di Kharkiv, raso al suolo, nel conflitto russo-ucraino ancora in atto, nato con l’obiettivo di favorire la divulgazione del lavoro di compositori ucraini all’estero, con ospite l’oboista Francesco Di Rosa, solista e direttore. In contemporanea, all’ opera di Tirana veniva inaugurato il nuovo cartellone lirico-sinfonico e di balletto, firmato dal Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli e dalla sovrintendente la violinista Abigeila Voshtina, il quale è salito sul podio per dirigere la Rapsodia su un tema di Paganini, op. 43 di Sergej Rachmaninov con Giuseppe Albanese al pianoforte e la I sinfonia in Re maggiore, il Titano di Gustav Mahler, con in orchestra suoi sette allievi del conservatorio “G.Martucci” di Salerno. Dies Irae il titolo della serata albanese e il ponte di musica ha attraversato Napoli, quella piazza Municipio a due passi dal teatro San Carlo e dal San Pietro a Majella, luogo di altra guerra, in cui sono stati trucidati il corpo e i sogni del giovanissimo cornista Giovanbattista Cutolo. Non è affatto semplice, oggi, continuare ad affermare che la musica sia salvifica, ma siamo consci che il suo sia l’unico segno in grado di lasciarci intuire l’indicibile, cui l’uomo sempre aspira, che in esso si mostra di un mostrarsi che spegne la voce e lascia un’ombra, ombra che abbaglia, che nasce e finisce in quel silenzio, che ora siamo tutti chiamati a “fare”. Giuseppe Albanese ci ha rivelato che il pubblico ha bisogno di “emozione”. Dai frammenti pervenutici da Tirana del suo Rachmaninov, il pianista, in piena empatia col direttore Jacopo Sipari, si è posto alla ricerca del “tempo pathico” (Aldo Masullo), quale appassionata cura contro l’insensata in-differenza da cui siamo attanagliati. Tecnica impeccabile, pari spessore sonoro e musicalità, in uno straordinario omaggio al compositore russo, in cui il primo merito del solista è stato trasmettere per intero la finezza sonora e la grana poetica dell’opera, cogliendo la vera, intima, profonda musicalità insita nella pagina scritta. Quindi, l’orchestra di Tirana guidata dal Maestro Sipari e, con in formazione, Gaetano Apicella (clarinetto basso), Carmine Landi (percussioni), Elpidio Matteo Buonpane (clarinetto piccolo in Mib) Mauro Castiello (tuba), Antonietta Lamberti (arpa), Davide Papa (tromba) e Andrea Ronca (ottavino), oltre dieci strumentisti dell’Umberto Giordano di Foggia, per l’esecuzione della prima Sinfonia di Gustav Mahler. Un’esplorazione del suono quella del direttore alla testa della sua orchestra, dalla quale è riuscito ad ottenere sfumature di timbri, comunicando al pubblico, il fascino e lasciando intuire i misteri di un universo sonoro sulla via dell’illimitato. Caratteristica della sua direzione è quella ricerca dell’armonica risultante tra spinte concettuali e formali di natura diversa, che lo ha reso “gemello” di Albanese nella rapsodia: l’invito positivo finale non è scivolato nella fredda celebrazione di un ottimismo mascherato, ma in una interpretazione segnata dal fuoco propulsivo e positivo della partitura, grazie anche ad una formazione particolarmente attenta ed ispirata. Menzione per il giovane piattista Carmine Landi: il finale della sinfonia per intero nel suo non facile strumento, tra esplosione, equilibrio e tensione, sino all’epilogo, la ricerca dell’iniziale “Naturlaut”, punto di partenza, ma anche rifugio ideale e inattingibile della poetica mahleriana. La chiesa di San Benedetto, è risuonata, invece, dell’aristocratica grazia e flessibilità di fraseggio, del suono assoluto dell’oboe di Francesco Di Rosa, il quale ha proposto il concerto di Alessandro Marcello in Do minore e quello in La minore di Antonio Vivaldi Rv.461. Varietà di suono, cesello di ogni nota nei larghi, di espressione, di movimento, che abbiamo apprezzato anche nella lettura direttoriale e nella realizzazione del contrasto agogico e dei ritmi elastici e agili. Standing ovation per l’orchestra che ha dedicato al pubblico salernitano, a sua volta la Sinfonia di Felix Mendelssohn-Bartholdy per archi n. 10 in Si minore, le Danze popolari rumene di Bela Bartòk e la Danza Spagnola di Myroslav Skoryk al pubblico salernitano, in una lettura appassionata affidata agli sguardi incrociati delle prime parti dei violini, della viola e del violoncello alla ricerca dell’amalgama adatto ad ogni pagina. Fiori, commozione e bis, l’immancabile “Gabriel’ oboe” di Ennio Morricone: dal suono del disincanto, il messaggio di resurrezione, speranza e gioia.