Gran pubblico per il debutto del pianista al Teatro dell’Opera d’Albania per questo gigante della musica contemporanea che ha spaziato dalla song albanese Kallma cigaren, all’immancabile Tico-Tico
di OLGA CHIEFFI
Un grande animale nero, il pianoforte, campeggiava sull’enorme palcoscenico del Teatro dell’Opera di Tirana. Il suo domatore Stefano Bollani, un’unicità sulla scena italiana, impostosi giovanissimo all’attenzione del mondo del jazz, grazie ad un talento cristallino e a quella stupefacente capacità di assorbire, mescolare e rimodellare stili pianistici e generi musicali, da Prokofiev ad Art Tatum, da Scott Joplin a Jarrett, da Gershwin a Battisti, fino a Mozart, è stato fortemente voluto dall’ Istituto di Cultura Italiano e dal direttore artistico Jacopo Sipari di Pescasseroli e dal sovrintendente Abigeila Voshtina, che avevano programmato con lui l’esecuzione della Rhapsody in Blue di Gershwin, simbolo pieno del meltinpot americano, ma con il direttore Jacopo Sipari in tournèe col festival Puccini, tutto sarà solo rinviato.
Bollani, è riuscito a diventare il beniamino di un pubblico anche al di fuori della ristretta cerchia di appassionati di jazz, grazie alle sue apparizioni televisive, ai programmi radiofonici, ai libri pubblicati e a una naturale vocazione di showman. Un testimonial perfetto per questo genere musicale, e uno dei pochi che riesca a suonarlo negli asfittici palinsesti televisivi e radiofonici di questi tempi. Chiunque abbia avuto la fortuna di assistere ad uno dei suoi concerti dal vivo, oppure di incrociarlo in qualche apparizione nei media, si sarà reso immediatamente conto di quale sia il suo livello di eclettismo. Bollani ha immediatamente stregato il pubblico di Tirana, accorso numerosissimo in teatro con una song albanese Kallma cigaren, resa celebre da Sabri Fejzullah & Adelina Ismaili, coinvolgendo il pubblico cattraverso le proprie armonie e i propri ritmi, essendo lui, capace di allargare a proprio piacimento la tavolozza sonora, proiettando avanti il linguaggio, senza perdere di vista aspetti essenziali del campo artistico di appartenenza, attraverso un controllo inquieto del materiale, su cui sanno muoversi con libertà modulatoria, con fluidità danzante e uno swing peculiarmente rilassato, con aperture sempre calibratissime e giocate con un senso vivo del contrasto. Seguirlo nei titoli è veramente difficile, poiché le citazioni sono veramente infinite. Le sue dita iniziano a correre velocemente sui tasti spaziando da Bob Dylan a Claude Debussy; da evocazioni di esotiche conghe e caravane ellingtoniane, con le quali si è dato il via all’anno celebrativo del Duca,Caravan di Duke Ellington, passando per sue composizioni, sino ad un excursus nella musica brasiliana che non può fare a meno della celeberrima Tico Tico di Zequinha de Abreu Ed ecco l’omaggio a Sandra Milo, nel giorno della sua scomparsa, con la passerella finale di Otto e Mezzo, il girotondo in quella lezione di regia, un film che è il giuoco di abilità più difficile che il regista abbia mai affrontato. Non è stato lontano il nostro Bollani da quella serie di acrobazie che il funambolo esegue al di sopra della folla, apparentemente sciolto, disinvolto e in stato di grazia, sempre sul punto di fare un salto più pericoloso, più mirabolante, e insieme di cadere per sfracellarsi al suolo, ma l’acrobata da compiere al moneto giusto la capovolta giusta, si raddrizza, si salva, e al pubblico non rimane che applaudire l’alieno. Il giuoco è fatto e l’esercizio è riuscito. Travolgenti bis. Fra gag a ripetizione e lezioni di piano, Bollani si mette a gigioneggiare coinvolgendo, guidando e correggendo il pubblico con il battito ritmato delle mani, come è avvenuto per Tico Tico.
Con quella memoria musicale e l’assoluta sicurezza di costruire quei cosiddetti “Bridges” tra un pezzo e un altro, Stefano Bollani incanta e ipnotizza, saltella sulla sedia quasi in sospensione, i piedi sono strumenti percussivi, le dita sprigionano note musicali intervallate dai gomiti premuti sui tasti bianchi e neri. Un’esibizione, questa, che ci ha fatto ricordare l’estetica cageana, ovvero il superamento di qualunque divorzio e distanza tra l’arte e la vita, la pratica dell’impossibile, tentando modelli sperimentabili di nuove relazioni degli uomini con le cose, sicura base di lancio per proiettare il pianista verso sempre più spericolate avventure sonore.