Trionfo al teatro Cilea in questo week-end per il Beckett di Lello Arena e Massimo Andrei, Vincenzo Leto, Elisabetta Romano, Esmeraldo Napodano, Angelo Pepe e Carmine Bassolillo, in una coproduzione La Contrada con Tunnel Produzioni/Teatro Cilea.
di OLGA CHIEFFI
“Com’è lunga l’attesa…” pronuncia tra sé Tosca, attendendo la “falsa” fucilazione del suo Mario, un ultimo coup de théatre della primadonna che si fa maestra di recitazione, tra i merli di Castel Sant’Angelo, un “lasciapassare”, quell’ attesa, verso la vita, che si trasforma in una sfida, il tutto elevantesi a monumento sepolcrale. “Era l’ora delle speranze e lui meditava le eroiche storie che probabilmente non si sarebbero verificate mai, ma che pure servivano a incoraggiare la vita. […] Una battaglia, e dopo forse sarebbe stato contento per tutta la vita”, scrive il Dino Buzzati de’ “Il deserto dei Tartari”. Nel volume di aforismi “L’attesa, l’oblio”, Maurice Blanchot parla dell’ “attesa riempita dall’attesa, riempita-delusa dall’attesa”. Il che forse vuol dire che l’attesa impartisce lezioni tanto alla nostra disperazione quanto alla nostra speranza. L’arte dell’attesa è una caratteristica di noi uomini del Sud, per questo Lello Arena e Massimo Andrei, Vincenzo Leto, Elisabetta Romano, Esmeraldo Napodano, Angelo Pepe e Carmine Bassolillo son riusciti così bene a calarsi nel criptico testo di “Aspettando Godot” di Samuel Beckett.
Il tempo fermo, l’immobilismo, è la caratteristica di certe produzioni del Novecento, che pur chiamiamo il secolo breve: in uno slargo, un incrocio di strade, in aperta campagna in un paesaggio invernale, tra foglie morte e cartoni, un’ “edicola” con una croce, si agitano tre coppie Vladimir detto Didì al quale dà voce Lello Arena, Estragon “Gogò” un Massimo Andrei in doppia veste di attore e regista, in attesa di un certo Godot che sperano possa fornir loro una certa sistemazione, Pozzo è un ispirato Vincenzo Leto, con Fortunato al guinzaglio, un perfetto Angelo Pepe, con l’aggiunta di una coppia di promessi sposi in attesa di convolare a nozze, composta da Elisabetta Romano e Carmine Bassolillo. “Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile.”, una frase che rispecchia l’indeterminazione dell’identità dei personaggi, la non consequenzialità delle azioni, l’annullamento della “normale” funzione comunicativa del linguaggio. A ciò va aggiunta un’evidentissima architettura musicale che organizza spostamenti, gesti, parole e silenzi.
Aspettando Godot rappresenta la condizione esistenziale di ogni uomo che è nell’attesa di qualcosa o di qualcuno, Godot, che non arriva mai: una giusta risposta che riveli il senso dell’esistenza. La nostra vita si compone di piccole e grandi attese: della persona giusta, del momento opportuno, del congruo guadagno e della meritata ricompensa, della telefonata che ci cambierà il futuro. Siamo sempre ad aspettare che accada quel qualcosa che abbiamo sempre desiderato. Ma c’è chi, intanto che attende, rimane fermo in balia della casualità degli eventi e c’è chi gioca con il fato. È una condizione che certamente può logorarci, ma non ferirci, perché è carica di speranze e di sogni. Se il sogno si è invece infranto o abbiamo la percezione che ciò che desideravamo non arriverà a causa dei nostri errori, allora l’attesa assumerà una valenza negativa. La nostra mente anticipa la sofferenza che sentiremo quando il fallimento del nostro progetto diventerà infine realtà. Di fronte a una caduta costruiamo immediatamente tutti i tasselli di un tracollo che, forse, non arriverà, ma a cui ci avviciniamo, attraverso l’immaginazione, e quanto più ci arrovelliamo, al quadro chiudiamo irrimediabilmente le ombre, al passo con la nostra angoscia.
E’ questa la messa a nudo del dissolvimento dell’uomo contemporaneo e siamo solo nel 1953, un tema, questo, rappresentato da Beckett con accenti e figure così tragiche e grottesche assieme, così amare e crudeli, poiché è dato già come punto di arrivo, o come punto di partenza, come immodificabile condizione dell’uomo, la cui esistenza, secondo Heidegger è “deiezione nell’esserci”. Ci sono solo tappe, “figure” di questa epifania del Nulla, una regressione dalla parola allo smozzicato balbettio, al verso animalesco. E’ lo sfacelo, fissato con lucidità se non con impassibilità, espresso con asciuttezza di linguaggio frequentemente illuminato da sinistri lampi di corrosiva ironia, condensato, spesso, in situazioni simboliche e figurali. Ma se il Joseph K di Kafka dà la mano a Didì e Gogò, la via d’uscita a questo Nulla c’è, la indica Didì sortendo in proscenio col “bambiniello” in spalla che spara a tutto volume “Ciao Mamma!” di Jovanotti, rimandando il suicidio di Gogò, che assapora la carota anche se è un legno, liberando Fortunato del guinzaglio e pare riuscendo a tendere anche una mano a Pozzo che cade, mentre lo “sterpone” mette le foglie e diventa verde e il sole sorge ancora. Un testimone da passare ai giovani per salvarci e salvarli dall’erosione del tempo e dell’indifferenza, ovvero come invita il nostro filosofo Aldo Masullo, cominciando dal praticare le arti, essendo pubblico partecipe di uno spettacolo, umanizzando le occasionali emozioni, siano esse una lettura, la partecipazione ad un evento, al bello. Non v’è infatti “fenomeno”, ovvero “vissuto”, emozionale e non, che non sia tale perché è sentito come “mio”, proprio di un sé. Movendo le emozioni e ritrovandosi in esse, l’erosione del tempo scomparirà, i rapporti saranno nuovamente possibili, grazie alla differenza e al dialogo, che si risolverà in discorsi d’Amore, unico viatico valido per il futuro dell’ Umanità.