La stagione del centenario pucciniano prenderà il via dalla soffitta di Mimì, per poi spostarsi a Firenze con Gianni Schicchi, mentre il conservatorio “G.Martucci” si cimenterà con il Donizetti dell’Elisir d’Amore. Toto-titoli per gli altri appuntamenti, ma Rossini e Verdi saranno presenti in questo eterogeneo cartellone.
di OLGA CHIEFFI
Anno celebrativo questo, del centenario della scomparsa di Giacomo Puccini e tra quei dieci colpi e dieci centri del compositore di Lucca, ognuno ha il proprio personaggio preferito. Noi ci ispiriamo al barone Scarpia, il capo della polizia papalina, in particolare di questi tempi, i suoi tre accordi scolpiti nel marmo, i suoi segugi, Spoletta e Sciarrone, per “giocare” a svelare qualche titolo della nuova stagione lirica e rendere meno “Lunga l’attesa”, che ci farà ritrovare in teatro “alla stagion dei fiori”. Sarà proprio Bohème il titolo pucciniano cardine del cartellone dedicato a Giacomo Puccini una partitura che è una introspettiva conversazione in musica sul quotidiano e l’emozione, che esalta la scelta degli strumenti voluta da Puccini, guidata da criteri cameristici, che strizzano l’occhio a Schubert, i quali lasciano, comunque circolare quel fascio di melodie a schema libero che, ora per la stringata e multicolore scrittura a mosaico, ora per lo sbocco slanciato, come le fatidiche otto battute del bacio d’aprile, si spingono avanti con naturalezza e spontaneità. L’altro titolo pucciniano sarà l’annunciatissimo Gianni Schicchi, ovvero la lezione dell’opera buffa italiana da Rossini a Mozart, e in particolare quella del Falstaff. Lezione peraltro già metabolizzata ai tempi di Bohème dinamizzando al massimo grado l’azione in quest’opera che avvicenda momenti leggeri e tragici e “spremendo” in essa le potenzialità cantabili di ogni inciso o frammento di testo. Tra Dante, anonimo e Forzano , perché no, lo stesso Puccini, abbiamo questa storia fiorentina del 1299 con lo Schicchi che per soprammercato fa sposare la figlia Lauretta a Rinuccio, il nipote più giovane dei Donati. Una commedia musicale dei nostri tempi, che è il disincantamento della morte, ossia la sua visione denigratoria, poco seria, alla maniera di noi napoletani. Si scherza, e si ride, ma in modo graffiante, sarcastico e poiché il titolo da accoppiarvi pare possa essere o “Il campanello” di Gaetano Donizetti o ci viene ancora in mente “Il segreto di Susanna” di Ermanno Wolf-Ferrari, vedremmo in regia quel “genio” mediterraneo di Riccardo Canessa, il quale espleterà in pieno il suo estro creativo sicuramente nell’ Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, titolo scelto dal Conservatorio “G.Martucci” di Salerno, del quale il regista napoletano è docente, per far assaggiare buca, palcoscenico e uditorio, ai propri allievi. Vicenda, libretto e musica formano un miracolo di perfezione che fa di questo lavoro uno dei massimi risultati del teatro in musica. L’opera conta due soli personaggi buffi, Belcore e Dulcamara: il primo caricatura del militare galante e il secondo, il dottore ciarlatano. Quanto agli altri personaggi, i veri protagonisti, Nemorino e Adina, il primo appartenente alla categoria dei ragazzi timidi e sentimentali, sospirosi e facili alle cotte, mentre lei, pur facendo la civetta e dandosi delle arie, è in fondo una donna semplice e innamorata, suscita il sorriso per il suo carattere squisitamente femminile, per la simpatica malizia. Intorno, comunque, dovrebbe spirare una rustica aria di paese, che l’orchestrazione rende ancor più agreste. Gli abitanti danno l’idea di vivere fuori dal mondo, ma in realtà ne sanno una più di Dulcamara, con il loro sornione, concreto agnosticismo, che in sostanza profitta ora di questo, ora di quell’altro che capita in giro. Il pudico ingenuo Nemorino riuscirà a far breccia nel cuore della “fittaiuola” con la tenerezza della sua commovente devozione, e non per merito del filtro al Bordeaux ( ma non si sa cosa inventerà Riccardo….) e siccome in quel mondo tutto da sempre, va per il meglio, anche i ciarlatani giungono a proposito, sulla celebrata “suonata” di tromba. Pare che a rinforzare il cartellone ci possa stare anche un titolo rossiniano, a scelta tra “Italiana in Algeri”, rimasta ai box lo scorso anno, ovvero le avventure dell’italianissima Isabella, che conosce la grande, squisitamente femminile arte di rendere fessi gli uomini, specie se turchi e per giunta califfi, bey, in fregola per rinforzare gli harem, tra archi, pozzi e falci di luna, oppure, ancora La Cenerentola, andata con strepitoso successo in scena solo due anni or sono. Una velata promessa ci fece Daniel Oren, ovvero quella di far riascoltare il suo Nabucco, che “sente” con tutto se stesso, del quale cerca di offrirne sempre una linea di lettura fortemente ritmata, contrastata, in cui invita l’orchestra a seguire la parola, il crescendo della tensione drammatica, il legato degli archi, la qualità dei “fortissimi” la compattezza negli assieme del coro, il suo racconto racchiuso per intero nella corona di quel “Va’ pensiero” necessario, oggi, come non mai.