Finissage il 31 marzo a partire dalle ore 18, negli spazi della Fondazione Ebris, per la mostra “Le tele di Penelope”. L’artista romano stupisce e disturba, persuade e violenta, chiama in gioco meraviglia, seduzione, provocazione
di OLGA CHIEFFI
“…Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”.
Sono, certamente, i versi più famosi di Kostantinos Kavàfis, questi finali di Itaca, la poesia del ritorno, in cui l’autore ci comunica il valore del nostos, che in greco assume un significato particolare. La video-installazione di Armando Cerzosimo “Io sono stato ad Itaca” chiuderà il finissage della mostra di Danilo Maestosi “Le tele di Penelope – Dietro le quinte in 4 atti” ospite negli spazi della Fondazione Ebris di Salerno, scandita in quattro capitoli La Notte; Alla Luce; Torna la Notte Armata; Com’è profondo il mare. Quasi un labirinto, il percorso di Maestosi, che intreccia le donne del mito quali Penelope, Arianna, Medea e Trotula, attualizzando l’arcaicità del mito fino a renderlo potentemente contemporaneo attraverso categorie quali il tempo, le donne e la guerra. Guardando il segno di Danilo, possiamo affermare che la sua personale odissea l’ha vissuta, nella sua vita di artista, attraverso il credo della sua arte, sempre coerente, ragioni estetiche che a noi e ai fruitori della sua opera, è sempre sembrata più relativo al presente che al passato. Incanta questa ultima suggestione, relativa al viaggio della solida voglia di vivere di Penelope una voglia inevitabilmente percorsa da angosce, frutto, molto spesso, del desiderio di vincere la volgarità dei soprusi. Danilo ha saputo appropriarsi del mito attraverso le immagini, creando un eccezionale trait-d’union tra il mito stesso, il mondo dell’ignoto, del sogno e della magia, della grandezza e dell’orrore, e la realtà cruda e prosaica, spesso misera, altrettanto piena di orrore, ma non di grandezza, della contemporaneità.
In essa, è riuscito a svelare, proprio tramite la presenza del mito, il meraviglioso mistero che comunque, in quanto vita, presenza, carnalità e pensiero, la anima. Il mito è immagine, è figura che senza posa si agita nella mente e nell’immaginario dell’uomo, e che s’incarna nelle immagini – nelle figure – create dall’arte. Il suo stile si potrebbe definire, con espressione ossimorica, ma proprio per questo carica di promesse e contraddizioni, realismo visionario: un’arte che certo non cancella i fantasmi del reale, l’eterna ossessione della referenzialità, e dell’illusione ottica, ma li immerge nel magma vibrante e inarginabile dell’immaginario individuale, di una visione che è sguardo rivolto al reale, ma è sempre anche sogno, immaginazione, allucinazione, luce calda e trasfigurante, o fredda e tagliente, colore e materia sontuosi, sensuali, inquietanti.
Danilo Maestosi stupisce e disturba, persuade e violenta, chiama in gioco meraviglia, seduzione, provocazione. Nel Dizionario greco del periodo romano e bizantino “nostimos” è un aggettivo derivato da “nostos”. E significa questo: “essenziale, prezioso, perfetto, la parte migliore di qualunque cosa”. Arte come viaggio, vita come moto, segno come slancio: certamente l’aspetto preferibile, da preservare, di noi uomini. Un messaggio anche politico. A riva giungono opere: chi arriva, chi approda non è che un’epopea, un corpo di testo, un colore, una melodia da ascoltare. nel labirinto archeologico della sua anima. Il ‘prima’ – che è tale anche per distinzione di lettura, per tattica critica – è dato da quei quadri di stabilizzata composizione, figurativamente nitidi, come nitidi sono i richiami espressi verso la mitologia. Questa – va precisato – non è solo il risultato di una scelta tematica, ancorché fantasticata o approssimativa, ma è il risultato di una pura quanto insistita mitografia pittorica: cioè della capacità, propria di Danilo Maestosi, di elaborare una visione per un mondo avvolgente e a tendenza totalizzante, sospeso tra presente e passato, tra realtà e irrealtà, tra natura e altro. E’ una mitografia che l’artista realizza mescolando le cose per sopravvenuto, giocoso senso della metamorfosi; che, di conseguenza, anima le figure come scrittura; tutti pienamente calate nella narrazione di un immaginario fatto di tele graffiate, da segni che lasciano intuire l’ordito del telaio, le sbarre delle finestre del palazzo, le ferite dei Proci, le onde del mare.
C’è un territorio dell’esperienza in cui la scissione che segna la nostra coscienza tra interno ed esterno si interrompe e tutto si mescola e si fluidifica. E’ l’arte con il suo miscuglio d’intelletto e sensibilità, di interiorità ed esteriorità, fra le ipotesi di viaggio dell’esserci più profondo del pittore. Dal mare inizia la storia e al mare ritornerà in questo finissage che dalle ore 18 di oggi, saluterà protagonisti, accanto a Danilo Maestosi Alfonso Amendola, Giulio Corrivetti, Pina De Luca, Rosa Maria Grillo, Carmen Guasco, Gina Tomay e Stefania Zuliani, unitamente ad Erminia e Corradino Pellecchia, Giovanni Gagliardi e Luna Maestosi, in dialogo sul tema “Penelope: la donna, il mito, l’immaginario”.