Al teatro Verdi di Salerno si è chiusa la vetrina del Conservatorio “G.Martucci” che, in sinergia con il massimo cittadino, ha inteso rappresentare il non facile titolo di Gaetano Donizetti. Riccardo Canessa ha ideato una regia per fuoriclasse del genere buffo che non erano certo in palcoscenico. In golfo mistico non si è andato oltre la lettura delle note
Dicesi “piatto” quel vino che non esprime alcun tipo di freschezza, non inducendo alcuna salivazione durante la degustazione. Gaetano Lo Coco, con un gesto ondivago non adatto alla sua inesperta orchestra della quale ogni singolo elemento merita attenzione, non certo in grado di far miracoli per risolvere la quadra tra buca, palcoscenico “affollato” da solisti, coro e banda, tempi soporiferi nel larmoyant e velocissimi negli assiemi, tali da metter ansia anche all’uditorio per l’esecuzione pulita dei numeri, non è riuscito a trovare l’ al-iksīr, la pietra filosofale per trasformare i metalli vili in oro e dare la giusta balance al suo Elisir d’amore. Una bevanda magica l’Elisir, che avrebbe dovuto avere una maggiore carica alcolica, per renderla stretta e personale, una nota un po’ piccante e afrodisiaca, con una nota fruttata, amara e brillante, come lo zenzero, richiamante al lime, con qualche colore più acceso e variato, felicemente mescolato, per far il doppio ad un palcoscenico schizzato da Alfredo Troisi, il quale per supportare l’idea di Riccardo Canessa, di trasferire l’azione “’nterra” il fiordo di Furore, col suo famoso vino, ha creato costumi e scene, gettando un incantato sguardo sui toni azzurro cangiante del nostro mare. Il set-up dell’orchestra, per l’intera produzione, un meccanismo sinergico tra il Conservatorio “G.Martucci” del direttore Fulvio Artiano e Teatro Verdi di Salerno del dinamico duo composto da Daniel Oren e Antonio Marzullo, è stato tarato sulle tre matinée dedicate alle scuole, in cui sono stati affidati ruoli di un’opera, che si pone “a cavaliere” tra due epoche, un melodramma giocoso, che acquista significato nel sorriso patetico ed elegiaco a cui volge la risata buffa, a interpreti “verdissimi”, anche se la partitura è stata quasi del tutto espunta dei passi più ardui; cantanti che, nelle agilità sopravvissute ad una imperante e veloce mannaietta, avevano ben poco volume. Quindi, se nelle matinée si è dovuto prendere, nostro malgrado, nota di fraseggi e recitazione mediocri, anche se non possiamo non riconoscere agli studenti prescelti buoni numeri, per almeno poter pensare di calcare dignitosamente i palcoscenici in futuro, intraprendendo, con la dovuta scienza, calma, metodo e studio, la sognata carriera, mai cedendo alle “sirene” di ruoli avvicinabili sul momento, nei serali, affidati ai professionisti, si è saliti di livello. Il Dulcamara di Alfredo Daza, introdotto fino all’ultima replica, sicuramente la migliore, da squilli di tromba insicuri, quasi buffi, pur essendo interprete di grande esperienza, ci ha negato il la del “fiatate” nella cavatina “Udite, udite o rustici”, che non è riuscito a regalare neanche Antonio Di Rosa, il quale, alla semistecca ha aggiunto anche scelte di fraseggio e articolazione poco chiare e un sillabato privo di elasticità. Il Nemorino di Juan Gatell è di grana, chiara, sottile, quasi evanescente. Il solista ha giocato sulla qualità di saper muovere la sua voce, una linea pura elevata con una originale libertà di andamenti melodici, sempre lontana dalla rigidità d’una forma chiusa, che si è spiegata docilmente, ma senza esprimere completamente i più opposti ed instabili atteggiamenti dell’animo, facendo meglio cadere l’ago della bilancia sul patetico. L’Adina della cantante albanese Enkeleda Kamani, possiede quella profonda convinzione della melodia, che le ha permesso di afferrare senza sforzo la natura dell’animo femminile, pur essendo latrice di una voce molto esile, capace di attraversare l’intera gamma tonale con facilità e chiarezza, che sale diretta e squillante sugli acuti, dei quali però non abbiamo notato la dovuta morbidezza e rotondità. Giovanissimo Belcore, direttamente dall’accademia del Rof, Maxim Lisiin, bella voce, coinvolgente, magnetico, da tenere d’occhio per il futuro, anche se al suo personaggio ha tolto un bel po’ di carattere e smalto buffo, soprattutto scenico. Applausi per le due interpetri del ruolo di Giannetta ascoltate, nel serale Miriam Tufano e nella matinée Maria Domenica Verde, sempre ben centrate in voce e interpretazione. Si è speso molto per il coro Francesco Aliberti, in prova e in palcoscenico dietro le quinte, riuscendo sempre nell’intento di renderlo protagonista dello spettacolo per intero, così come abbiamo visto passi di tarantella e accennare al mambo (“Pane amore e…mambo italiano”) e al twist, gli artisti nel brindisi per Belcore e Adina, in un romantico moonlight napoletano. Regia vincente quella di Riccardo Canessa, che avrebbe meritato interpetri di maggiore esperienza e convinzione, certamente, più comunicativi, veri animali da palcoscenico per realizzare tutte le sue simpatiche “canessate”, come il coro, che segna il passo, rivangando l’avanspettacolo, mantenendo, così, anche il tempo, azioni non scontate che rendono inconfondibili le direzioni del regista napoletano, il quale ha vestito Dulcamara con la livrea del pazzariello, con tanto di mazza da tamburo maggiore, pensando, ma non ottenendo dai due buffi, quell’ inarrivabile camminata, quasi una danza, di Totò ne’ l’Oro di Napoli di Vittorio De Sica, per calare, quindi, Furore e i suoi abitanti nella festa, con tanto di “allumata” e fuochi d’artificio, passando per l’evocazione della scena del caffè di “Questi fantasmi”, a qualche verso “girato” in napoletano, sino all’ eco della sua stessa voce nel duetto Nemorino-Dulcamara, con il tenore richiamato dal simpatico ciarlatano che urla “Uheee guaglio’ ”, sollevato da terra per un orecchio. Affacciandosi in buca, menzione al composto e sicuro Konzertmeister Tommaso Troisi, in rappresentanza di tutti gli archi ben concertati, sin da settembre da Raffaele D’Andria, ai tanti debuttanti, in un’opera affatto facile, agli ottoni in buca, con la prima tromba FrancescoPio Sandulli e la prima parte dei tromboni, Claudio Vitale, degni eredi della scuola salernitana, ai bei suoni dei legni, non sempre precisi, alle percussioni in ascesa nelle varie repliche, con il voluto e conquiso, dignitoso esordio, di Simone Parisi ai timpani, ai tutti i maestri aggiunti in orchestra, alle invenzioni del pianista Maurizio Iaccarino, che ha inteso passare nei recitativi da una “Lacrima sul viso” al tema principale di Love story, dalla Marcia Imperiale di Star Wars, sino ad un musicale sospetto di Malafemmena su “non so qual crudele”, in tema con la creazione registica. Lancio di rose, anni ’50 style, applausi per tutti e che “possa presto a noi tornar” l’opera.