Diverse le anime del Maestro del coro del Teatro Verdi di Salerno, il quale fonda la sua finissima recherche musicale sugli studi di filosofia, due giganti nella sua playlist particolare, Bach ed Haendel
La filosofia è la musica più grande, aveva detto il Socrate platonico. Musica e filosofia sono “forme di pensiero” che condividono la stessa ricerca di completezza espositiva e mirano entrambe a esprimere una verità, l’una mediante le parole, l’altra mediante la sequenza “ragionata” dei suoni. “Più volte nella vita passata veniva a visitarmi lo stesso sogno, apparendomi ora in uno ora in altro aspetto; e sempre mi ripeteva la stessa cosa: O Socrate, diceva, componi ed esercita musica. E io, allora, era quello che facevo”. Potrebbe essere questo l’essenza della vita di Francesco Aliberti, mancato matematico puro, ma musicista e filosofo, oggi Maestro del Coro del Teatro Verdi di Salerno, docente di Esercitazioni Corali del conservatorio ove ha studiato, il “Giuseppe Martucci”. Ma potremmo spingerci oltre con gli Evangelisti e i Padri della chiesa, che il Maestro è sempre pronto a citare, passando per Cartesio e Nietzsche, raggiungendo Ernst Bloch e il suo pensare la musica come principio di speranza, un’utopia realizzabile, il potere del suono, l’espressione dell’interiorità più autentica, poiché consente di elevare l’uomo da ciò che Bloch chiama “oscurità dell’attimo vissuto”: l’attimo presente è oscuro, ci sfugge in continuazione in quanto troppo vicino, troppo scontato. Il suono ha il potere di distoglierci dall’attimo presente, dallo stato di coscienza abituale, per portare il pensiero verso la nostra interiorità più profonda, altrimenti invisibile, un auto-incontro. Abbiamo invitato il Maestro, all’indomani della sua conversazione intorno al Caravaggio ospite nella sala degli affreschi del complesso di San Michele, a raccontarsi.
Maestro, la musica ha scelto lei o lei ha scelto la musica?
“Non siamo noi a scegliere. Accadono cose che ti portano a vivere delle esperienze. In casa dei miei nonni, don Ciccio ‘o tabaccaro’, figura storica del nostro centro storico con la tabaccheria in via Botteghelle, e nonna Tina, c’era il carillon della Madonna di Lourdes che riproduceva il suo inno. Ogni volta che si caricava questo carillon, per me era un’emozione continua, avevo un due o tre anni e piangevo all’ascolto della musica. Poi in casa dell’altra nonna Anna costringevo la mia bisnonna Maria Grazia ad organizzare processioni immaginarie, con tanto di croci astili, banda immaginaria da me diretta, incluso quell’“oscillare” delle campane delle madonne che venivano portate in “processione”, croci astili, litanie e laudi improvvisate, in preludio di marce e Te Deum pucciniani. Una bella infanzia la mia, trascorsa anche nella casa in montagna sempre con i nonni ad Acerno. Acerno è il luogo in cui il tempo si è fermato, dove sento ancora l’ingenua serenità del bambino, il luogo a cui ritorno quando avverto che l’angoscia mi attanaglia. Lì, con il nonno, facevamo anche un sacco di esperimenti di matematica: per esempio, il calcolo dei volumi o delle aree con i pezzi di compensato usati per il camino. Nonno costruiva forme geometriche e mi divertivo a risolvere i problemi di geometria, che a me piacevano tantissimo. Con gli scatoloni delle sigarette, poi, costruivamo chiese di cartone: anche questo richiama la mia tendenza verso l’interesse religioso. La mia vita, in fondo, è sempre giocata su un terreno diviso tra musica e filosofia, poi osmoticamente fluite nella mia esperienza didattica e professionale”.
Ma andiamo per gradi. Chi lo ha avvicinato al primo strumento?
“Mio padre avrebbe voluto studiare musica, ma erano altri tempi, mi ha quindi supportato, riflettendo su di me il suo sogno, notando una mia certa sensibilità e senza alcuna forzatura, beninteso. Il mio primo maestro è stato Lorenzo Maffia, quindi Maria Gabriella Ricci, al Setticlavio, e da lì sono entrato in Conservatorio, nella classe di Adriana Mannara. Successivamente ho studiato Didattica della Musica, Musica da Camera, Musica Vocale da Camera, Direzione di Coro, Clavicembalo, Canto e Composizione”.
E la filosofia?
“Ad otto anni leggevo e rileggevo i testi del catechismo e ne facevo il riassunto scritto. Anche di qualche libro più “grande” di me, come il monumentale “Frau musika” di Alberto Basso. Ero il ragazzino più grande dei corsi parrocchiali e mi lamentavo che si toccasse solo la superficie delle questioni religiose, la “storiella”. Scelsi lo scientifico (studiando il greco per mio conto) dando un pizzico di delusione, poi, al professore di matematica Marseglia, quando mi iscrissi alla facoltà di filosofia, tradendo il suo buon viatico per quella matematica pura, perdonandomi – mi disse – solo perché avevo intrapreso gli studi musicali. Ma c’è un precedente che mi ha avvicinato alla filosofia, l’angoscia del futuro, diciamo della morte, una parola che nelle feste di Natale del 1990, non riuscii a dire a mia madre. A quasi otto anni, un sogno, un sudore freddo, un rimuginare continuo e scoprii la paura dell’Oltre, che poi mi ha portato anche agli studi filosofici, all’eterna ricerca di una soluzione, per poi ammettere che soluzioni in fondo non ce ne sono”
E il Francesco Aliberti dopo il pianoforte?
“Alla musica antica mi hanno avvicinato le lezioni di Francesca Turano e Paola Ghigo, che mi hanno fatto scoprire, tra le altre cose, Monteverdi, il contrappunto bachiano e il clavicembalo, che ho suonato per la prima volta in occasione di un Didone ed Enea di Purcell eseguito nelle scuole. Quindi, un altro accadimento: ho ascoltato un controtenore a “Bravo bravissimo”, il programma condotto da Mike Bongiorno, in una pagina di Handel e mi sono innamorato della musica barocca, anche attraverso i cd delle collane che mio padre comprava per me in edicola. Poi cominciai a comprare dei dischi (all’epoca costavano un occhio della testa). Ricordo le prime edizioni del Festival di Musica Antica ideato dal Professore Carmine Mottola con tanta passione e ricerca, quando ero ancora allievo, poi sono andato a lavorare al Teatro San Carlo di Napoli e non sono riuscito più a seguire i concerti con assiduità”.
Salerno, Napoli, Genova, Cina, e ritorno in patria. Come è iniziata la carriera da maestro di coro?
“Ho cominciato al Verdi di Salerno, come pianista di sala, con il Macbeth del 2006, grazie al fiuto di Antonio Marzullo. Prima, però, bazzicavo il teatro seguendo Antonello Mercurio, buttato nell’agone nel secondo atto di Bohème a suonare il piano. Le opere erano dirette da Francesco Rosa, che ha poi speso buone parole per me. Poi nel Rigoletto ho conosciuto Giacchieri, che mi fece fare anche la comparsa come suonatore di liuto nel secondo atto. Giacchieri e Beppe De Tomasi mi hanno insegnato che si può fare il teatro con nulla. Basta un pensiero ben organizzato. Alla fine del 2007 sono sbarcato al San Carlo con i Maestri Marco Ozbic e Salvatore Caputo, in qualità di Altro Maestro del Coro e fu Francesco Rosa a fare il mio nome e a consentirmi di cogliere questa importante occasione. Grazie a Ozbic, di chiara formazione mitteleuropea, ho sentito per la prima volta parlare di retorica della musica. Quindi, Genova, Teatro Carlo Felice, grazie a una segnalazione di Ciro Visco: c’era bisogno di un direttore giovane ed energico, per risollevarsi un po’ anche psicologicamente da certe pastoie finanziarie che aveva subito la Fondazione. L’esperienza cinese, invece è cominciata proprio al seguito del Maestro Daniel Oren, con la Turandot a Pechino nel 2012, poi proseguita con Traviata e Carmen. Lì ho conosciuto Catherine Chu, pianista della Scotto, ed è nato un bel sodalizio, che mi ha portato a partecipare a produzioni e tenere masterclass fino al 2019. Sono tornato con grande piacere in Cina sul finire del 2024. Lì amano molto il mio modo di insegnare e direi che, tra i tanti colleghi, con Catherine si è creata una bella affinità”.
Chi riconosce quali maestri?
“Nella filosofia certamente Sergio Sorrentino e Vincenzo Vitiello, che hanno ispirato le mie prime pubblicazioni. Nella musica in primis Adriana Mannara, che mi ha insegnato il metodo della scuola napoletana; padre Alfonso Vitale, che ha dischiuso nella sua semplicità ed esuberanza nuove prospettive nell’approccio dell’analisi e della conoscenza della musica; quindi Ciro Visco, un grande maestro del colore vocale dalla sapiente diplomazia, e non ultimo Antonello Mercurio proprio per aver acceso la curiosità verso l’analisi e la retorica musicale. Poi ho “rubato” un po’ da tutti, la musica è sempre una bottega artigianale”.
E il Francesco Aliberti didatta?
“Mi piace tanto l’insegnamento e già nel 2007 ho avuto un’esperienza al Conservatorio di Vibo Valentia per la didattica. Quindi Monopoli, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Potenza e ora qui a Salerno. Ho lasciato un pezzo del mio cuore al Conservatorio di Reggio Calabria, dove ho ottenuto il ruolo nel 2018. Quanto all’approccio nell’insegnamento, non mi convince la didattica “verticale” per cui a priori si deve comprendere un meccanismo vocale secondo principi assoluti: mi sembra che la ragione si voglia prendere spazi che appartengono alla dimensione del corpo. Per questo, insisto sempre nel comunicare un messaggio ai ragazzi: occorre esplorare la dimensione emotiva, la percezione interna di ciò che accade, senza alcuna inibizione. In tal senso credo che anche la personale scoperta dell’identità sessuale abbia a che fare con questa dimensione di ricerca didattica, oltre che con la più generale esigenza di coniugare il doppio che un po’ appartiene a tutta la mia vita, la contraddizione che sento e che cerco di non sentire o accettare o superare. Per la stessa ragione credo in un’esplorazione della vocalità libera, aperta, serena, attenta all’inconscio e alla sessualità in quanto elementi fondanti del vissuto vocale. Non invento nulla: cito imminenti psicologi che si occupano della voce, come Laura Pigozzi, quando dico che la laringe è un organo sessuale secondario, che il piacere del cantare ha che fare anche col godimento che viene dal riempimento del corpo cavo. Questa affermazione crea ancora imbarazzo se evidenziata in sede didattica. Ciò dimostra che dobbiamo ancora combattere contro una cultura sessocentrica che alla fine non rispetta davvero la nostra dimensione fisica. Di fatto non sussiste una reale esplorazione del corpo e un riconoscimento di una dignità integrale della persona, compresa la dimensione sessuale, e questo lo vedo nei ragazzi che spesso sono bloccati quando cantano. Magari affrontare i problemi vocali può diventare un’occasione per scardinare determinate rigidità. Bisogna amarsi di più, come si è. Il rispetto per gli altri viene prima di tutto da una indulgenza per se stessi. Non dobbiamo essere perfetti. Sto imparando ad amarmi a poco a poco, con la mia fisicità e i miei abissi, che non contraddicono la mia disponibilità verso gli altri e il mio desiderio di Lui… Persino Dio ha toccato il fondo. Perciò amo Gesù”.
E il suo futuro e quello della Musica?
“Confesso di temere le potenzialità dell’intelligenza artificiale e il continuo abbassarsi dell’asticella, un po’ in tutti i campi. L’uomo non potrà mai essere sostituito. Programmare emozioni non è come provarle. Speriamo che ci sia ancora qualcuno ad accorgersi di questa differenza tra qualche decennio. Il sogno nel cassetto è dirigere la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach e il Messia di Handel, ma non me ne farei un cruccio se non dovesse avverarsi, perché Handel e Bach mi accompagnano come amici invisibili ma costantemente presenti da sempre. Va detta una cosa che, forse, consente anche di comprendere la mia visione della vita oggi. Ultimamente quando ascolto le sigle dei cartoni animati, il Valzer di Lupin e Occhi di gatto, che mi riportano alla mia prima infanzia, percepisco in modo particolare la sensazione del tempo che passa, della vita che scorre e sono preso da una profonda malinconia, come se sentissi la vita come un cappio che si stringe lentamente. Davanti a questa sensazione, il lavoro e le corse per realizzare la carriera rivestono un’importanza secondaria. In questo momento sento che è più importante – e lo dico alla maniera di Paolo – combattere certamente una buona battaglia, con il compagno giusto, mio marito Michele, e soprattutto conservare la fede, ossia una disposizione dell’anima aperta alla speranza, alla Luce che irradia le ombre. Davvero non riesco a pensare a un orizzonte di senso senza questa Luce che irradia tutto ciò che faccio. Una Luce che non dipende da me, spesso avvinto dalle ombre. E quindi, immagino l’ultimo giorno, nel quale senza alcun timore mi rimetterò nel flusso della Vita per continuare a godere della particolare amicizia di Gesù, che sento sempre vicino indipendentemente dalle adesioni istituzionali o dichiarate, sulle potenti ali della musica di una particolare playing list che comprende i miei pilastri: Bach, Cum Sancto Spiritu, Et resurrexit, Et expecto, Sanctus, dalla Messa in si minore; e Handel, dal Messia, Worthy is the Lamb e Amen. Spero che il cuore sia sempre disposto ad accogliere questa Luce. Il resto verrà da sé.