Al Teatro San Carlo vincente la regia di Emma Dante che con alterna accoglienza ha già fatto il giro dei vari teatri che hanno collaborato a questa produzione. Gemma sin da subito il giuoco delle associazioni con la sfilata dei Gagliardetti e con i morti per mafia a spingere l’insurrezione. Voci maschili sugli scudi, così come l’interpretazione di Maria Agresta. Direzione e coro con molte ombre
di OLGA CHIEFFI
C’è Antigone nell’Elena di Maria Agresta, nella cavatina con cori e in quel “Deh, tu calma , o Dio Possente” simbolo di un conflitto vissuto con estrema dignità. Antigone crede nella libertà, una libertà che si colora di riflessi politici. Accorrono a supportar lo sbarco le femminote siciliane, novelle Antigoni, sciolti i capelli, “spiranti”, poetanti, quali corpi sonori, nei cati d’acqua, accorrono a supporto della loro terra, metafora della crisi di un’istituzione e di un’identità anche psichica continuamente messa in dubbio; figura attraverso la quale si esprime la penetrazione nella coscienza, anche complessa, di un carcere quale diviene il Palazzo di Monforte. La rivolta è spinta dai gagliardetti oscillanti, quasi a far vento per sospingere le barche dei futuri rivoltosi, su cui ci sono i volti di Chinnici, Basile, Spatola, Cassarà, Dalla Chiesa, Scopelliti, Grasso, Falcone, Borsellino, e quindi le targhe delle strade e dei luoghi dove sono stati trucidati, uomini lasciati “soli” dallo Stato, sono caduti, per mano di Cosa Nostra, mentre il teatro si illumina, poiché siamo tutti invitati a partecipare alla rivolta che parte da piazza Pretoria, con la cosiddetta fontana della Vergogna che viene scomposta e ricomposta nei vari atti, fino a diventar prigione e luogo della festa e quindi dell’eccidio, mentre dai palchi vengono calate le effigie di coloro ai quali è stato tolto il futuro. Dal palco di boccascena, quasi a sfiorare il golfo mistico, l’immagine di Giogiò Cutolo col suo corno. Con loro, su quel ponte che solo le arti, oggi come oggi, riescono ancora a costruire tra passato, presente e futuro, Emma Dante, è riuscita a creare quel amalgama, con i suoni de’ “I Vespri siciliani”, di Verdi in scena al Teatro di San Carlo, che ci giungono dal remoto, contemporaneamente sondando il momento attuale, mentre dischiudono una porta sul domani, donando, così, a quei volti e a noi una nascita, una nuova era, forse la realizzazione di un sogno, l’eredità di chi è morto per servire uno “Stato così come dovrebbe essere” (G.Falcone). Queste le ragioni forti e convincenti della regia di Emma Dante, la quale ha scelto quale riferimento filosofico Bergson e la sua contrapposizione tra tempo-vissuto, tempo interiore e tempo-spazio.
Il tempo si cristallizza: quale autosufficienza dell’istante assume una dimensione sacrale, iniziatica, misterica; è l’atto, la vita stessa nella sua pienezza. La lite, la turbolenza, l’odio originario, il furore umano racchiuso nella morte e nella insurrezione, ci apre all’esercizio filosofico, a quel compromesso col passato e nella comunione cosmica di destini, tra quel marzo del 1282 e l’oggi. Musicalmente, certamente, da premiare le voci maschili, a partire da Mattia Olivieri, splendida corda di baritono, interprete di Monforte, il tiranno francese, che ha qualche momento di sincera umanità, mentre tutti gli altri personaggi , non sono solo privi di anima, ma anche ambigui e qualche volta equivoci. Non è semplice cantare questo Verdi, poiché bisogna aver coscienza che ogni cabaletta si scioglie, come un gomitolo d’argento , sull’agonia d’una burrasca. D’improvviso , la tela della scena si squarcia e il tenore, il soprano, il baritono si battono per cogliere un’estasi pari a quella della luna piena che di slancio trapassa un nodo di nuvole nere. Ci è riuscita bene il nostro soprano Maria Agresta, mettendo a nudo in Elena l’imperio del cuore e del corpo nella scena della fortezza, nel quarto atto, cantato nota per nota, con voce che ha emozionato, in particolare nei registri medio alti, ma segnati da una qualche rigidità nella Siciliana, in tempo di Bolero “Mercè, dilette amiche”, un brano ad effetto, che ha da essere condotto con abile mano da chi impugna la bacchetta, stavolta in mano all’ungherese Nànàsi, che ha scelto tempi molto stretti, conquistando la maglia nera dell’intero cast musicale.
La katabasi di Henrik Nànàsi, nel nostro giudizio, è iniziata sin da subito, dalla synthesis dell’intera opera che è racchiusa nella sinfonia, lasciata scorrere come acqua su pietra, quasi interrompendo la comunicazione tra buca e palcoscenico, sin alla prima apparizione del coro, per poi continuare nel concertato del terzo atto e provocando innumerevoli discromie e discronie che hanno punteggiato l’intera opera, per di più con il Maestro del coro al suo debutto, Fabrizio Cassi, che è incocciato in un’opera non semplice, con la formazione da lui preparata che ha offerto una prova appena sufficiente. Nessun preziosismo di suoni in orchestra, in particolare, da parte dei legni, figlia di una concertazione in cui è risultato evanescente quell’equilibrio tra parte drammatica e lirica, quella giustapposizione di accenti cupi e intimi che richiede la partitura verdiana. Arrigo ha vissuto attraverso la voce di Piero Pretti, bel tenore eroico, dalla voce teneramente virile che scorre su di un tappeto di velluto, capace di una delicatissima sofferenza, manifestata, però sempre a polmoni pieni. D’eccellenza anche il bass-bariton Alessandro Esposito, nella non facile parte di Giovanni da Procida, venuto subito fuori con “O Tu Palermo”, quella melodia che si stende serena ed incisiva, in cui il baritono ha riconfermato la generosità vocale, sostenuta da ottime qualità recitative, da un gusto interpretativo e da una linea musicale che ha espresso sempre in un fraseggio convincente. Ottime voci quelle dei comprimari Bethune (Gabriele Sagona), Vaudemont (Adriano Gramigni), Danieli (Francesco Pittari), Roberto (Lorenzo Mazzucchelli) Ninetta (Carlotta Vichi), Manfredo (Raffaele Feo) e Tebaldo (Antonio Garés).
Tutti a casa orfani del balletto Le quattro Stagioni e applausi di un teatro San Carlo sold out con tanti giovanissimi in sala. Stasera, ultima replica.