In scena dialogano le voci di Deniz Leone, Laura Claycomb e Gustavo Castillo, con il Coro del Teatro dell’Opera di Salerno, dal Coro di Voci Bianche del Teatro «Giuseppe Verdi» di Salerno e dall’Orchestra Filarmonica «Giuseppe Verdi» di Salerno, guidata da Michael Balke. La VII edizione di Un’Estate da re firmata da Antonio Marzullo che per quest’anno “stramba” verso una linea elegante, ma nazional-popolare.
di OLGA CHIEFFI
E’ giunto il momento di “Un’estate da Re” che animerà da domani, alle ore 21, al 18 settembre la sfarzosa reggia di Caserta. Da VII anni il re è salernitano e risponde al nome di Antonio Marzullo, il quale quest’anno concede un unico concerto al repertorio classico, decidendo di strambare decisamente verso un raffinatissimo nazional-popolare con un omaggio al cantautorato con orchestra con il Faber di Peppe Servillo, Ilaria Pilar Patassini, diretto da Geoff Westley,il romantic Tour di Mario Biondi e le due attesissime serate con Claudio Baglioni, protagonista di un progetto originale, pensato per la Versailles campana. Si sposteranno, domani sera, nel cortile della Reggia vanvitelliana, le intere masse corali e strumentali del massimo cittadino, per donare ad un pubblico internazionale i Carmina Burana di Carl Orff. In scena dialogano le voci di Deniz Leone, Laura Claycomb e Gustavo Castillo, accompagnate dal Coro del Teatro dell’Opera di Salerno, preparato da Andrea Albertin, dal Coro di Voci Bianche del Teatro «Giuseppe Verdi», istruito da Silvana Noschese e dall’Orchestra Filarmonica «Giuseppe Verdi», diretto da Michael Balke, una produzione che ha debuttato felicemente “in casa” a giugno.
Carlo Orff, alle soglie del ‘900, è stato interprete di un codice, quale quello di Benediktbeuren, su cui non sta scritto il ritmo del canto, né chi debba cantare (soli, pochi, tanti; voci acute, voci gravi), né tanto meno se questo canto sia arricchito da strumenti, e , se sì, quali. Uniche certezze: l’altezza delle note e soprattutto, un testo rutilante di immagini salaci, di ritmi verbali travolgenti. Partendo, dunque, da così scarse – per quanto sostanziali – indicazioni, ecco svilupparsi la sua interpretazione: non solo di una serie di canti, certamente; ma dell’era lontana da cui ci sono pervenuti, che è un Medioevo colto (che parla latino) e, nello stesso tempo profano, se non pagano, nel suo inno alla Fortuna. Orff non ha avuto dubbi: “quel” medioevo è corale, affollato. Sul prato stanno a centinaia, in festa ; e ballano. Chierici e frati stanno in mucchio, stipati all’interno della taverna. La corte d’amore è piena di ragazzini petulanti. Mai visti i mucchi, appunto, di teste e di membra che riempiono ogni formella di bassorilievo dell’Antelami? Come in quelle formelle, qualcuno anche qui sembra ogni tanto divincolarsi ed emergere: il controtenore che frida “miser, miser”, o il baritono che ballonzola su “ego sum abbas”; e il soprano, soprattutto, che incoraggia “iuvenes” e “iuvencule”, affinché “coniugantur”, dando subito il buon esempio nel grido orgasmico di “dolcissime”. Attorno a questi solisti sta, comunque, e sempre una folla alitante e sudaticcia. Il che, in termini musicali, si risolve in un continuo emergere di piccoli organici (vocali e strumentali) che poi vengono sommersi dalla sonorità piena e gridata di un coro disinibito, sostenuto da un’orchestra chiassosa. Tutto si svolge di fronte a tutti. E’ il Medioevo che i sociologi chiamano “epoca organica”, perché le feste erano di tutti, così come i lutti e le ricorrenze. Carl Orff “interpreta” questi canti come parte di un teatro globale, dove tutti sono spettatori e attori, tutti cantano e danzano. Anche nella Germania di quegli anni l’individualismo era “piccolo borghese”. Questa interpretazione intende coinvolgere, dunque, una folla di donne e di uomini, non necessariamente professionisti della musica, ma soltanto educati ad essa (nel senso tedesco, naturalmente; non c’entra il terzo mondo a cui, per educazione musicale, noi italiani continuiamo ad appartenere). Nel codice benedettino non sono segnate le differenze tra le parti tutte gridate e quelle sussurrate, ma in questa interpretazione questa differenza è necessaria per semplificare al massimo l’esecuzione di massa (bianco/nero). Nel codice non ci sono accenti e rintocchi: ma qui sono necessari per “far andare tutti insieme”. L’interpretazione corale e teatrale, che Orff dà di quei canti, originariamente così semplici, è, quindi, carica di ideologia, tanto più perché sembra dirci che “quel Medioevo è qui tra di noi, vive nel nostro tempo, è festa delle nostre feste, ritmo dei nostri ritmi, voglia di cantare della nostra voglia di cantare. E’ un Medioevo moderno, cioè, che si presenta con l’evocazione del violino diabolico dell’Histoire du soldat o con i ritmi grotteschi della marcia dell’Amore delle tre melarance di Prokofiev. E’ tutto un rintronare di timpani e tamburi, un apparire improvviso di nacchere, un irrompere di stranianti accordi al pianoforte. E sulla struttura ben solida di una tonalità che –sola- fa cantare il popolo, Orff si prende il gusto di disseminare urti, dissonanze e cluster beffardi. Questa interpretazione del Medioevo risponde allora proprio all’idea del grottesco: una caricatura, ma seria; un’ironia, ma carica di ammirazione; un gioco, ma carico d’impegno. E’ il modo in cui anche Stravinskij recupera dal passato musiche altrui. E’ il modo con cui almeno metà della musica del nostro secolo ha fatto i conti con la musica popolare (Bartòk, ma anche Gershwin). Orff ci parla, attraverso questa interpretazione di una vitalità originaria, dirompente, esagerata: un tuffo totale nell’irrazionalità collettiva. La musica sa essere deformante, corrosiva, sbeffeggiante, lo stile può scegliere di essere eccessivo, clamoroso, squilibrato, attenzione, allora, a questo potente demone, che per qualche, attimo potrebbe trasformarsi in un ghigno e governare!