Gran successo di pubblico per la presentazione napoletana del volume postumo del poeta salernitano “Il corpo e l’orto” ospite degli spazi del Palazzo Reale.
Come dire l’informe che attira e che il linguaggio non raggiunge o sembra non raggiungere, come dire gli inizi delle cose, il tempo, lo spazio, il dono, l’amore, la morte? Un nodo perpetuo senza scioglimento è questo dell’indicibile che ci troviamo ad affrontare nel linguaggio, almeno finchè non ne abbandoniamo la presa lasciandoci fluire insieme ad esso. Marco Amendolara ha scelto di esprimere tutte le cose e le sfumature del mondo, di quel contenitore in cui lui si è mosso, e da cui ha scelto di evadere, di liberarsene, in poesia e giovedì sera, al Palazzo Reale di Napoli, si è svolta la presentazione del suo libro postumo “Il corpo e l’orto. Poesie 2005-2008” (Edizioni La Vita Felice di Milano, con una postfazione di Renzo Paris). L’incontro nato dalla collaborazione dell’Associazione Marco Amendolara con il Premio Napoli e la Rivista di poesia Levania, ha salutato l’introduzione critica e il coordinamento di Ugo Piscopo, seguita ai saluti istituzionali di Gabriele Frasca presidente della Fondazione Premio Napoli e di Alfredo Nicastri, presidente dell’Associazione Marco Amendolara. Ugo Piscopo ha ricordato il suo primo incontro con un Marco Amendolara appena quindicenne al seguito dello zio Rino Mele, un giovane a sorpresa innamorato di Luigi Compagnone, tanto da leggerne avidamente ogni sua riga. In seguito il rapporto s’intensificò spostando il centro d’interesse su Alberto Savinio, genio eclettico, scrittore, pittore e fine compositore italiano, che Marco elesse ad uno delle più importanti figure di una corrente di artisti poliedrici analizzata in “Doppio Magma”. Ugo Piscopo ha letto, quindi, con grande commozione, un suo scritto dedicato a Marco, comparso sull’inserto domenicale di “Cronache del Salernitano” Ulisse, “Marco Amendolara, ancora con noi poeta serio”. In attesa del filosofo Aldo Masullo, il quale ha ritardato grazie ai buoni ed affettuosi consigli del suo caro amico Rino Mele, abbiamo ascoltato le due testimonianze di Eugenio Lucrezi, direttore della Rivista di poesia Levania, che stringeva tra le mani una delle prime plaquette di Marco, “Misteri di Seymour”, pubblicata da Altri Termini nel 1989, e di un suo incontro con lui debuttante, prossimo ai quaranta, proprio negli studi dall’editore del ragazzo poco più che ventenne, già rotto all’arte della poesia e della saggistica. Tre i testi interpretati dal Lucrezi da “Il corpo e l’orto” versi simbolo a suo dire di una poesia dell’impossibilità di relazione con natura, corpo, uomini. Ferdinando Tricarico ha fatto sua la scelta di vita di Marco, poiché è stata anche quella di suo fratello, di cui ne prende i testimoni, ne apprende il coraggio, l’esempio, attraverso la sua parola che ha definito memorabile, di un poeta che ha scritto e attuato il suo pensiero. Poi, è salito in cattedra Aldo Masullo, il grande saggio, con la sua calma olimpica si è sfilato l’orologio, poiché l’attenzione del pubblico ha un suo tempo ben delimitato. Masullo ha concluso l’incontro con parole magnetiche. Se la filosofia è dialogo, il romanzo ci diverte, il saggio c’insegna, perché leggiamo la poesia? Poiché abbiamo sete, poiché dobbiamo dare alla nostra vita ciò di cui più ha bisogno, la cura dell’anima. Abbiamo bisogno della parola che riempie, la parola piena, che è intraducibile e sa aprire orizzonti infiniti, produrre scintille, nascite. Ha aperto il libro di Marco, dinanzi al cui verso si è posto vergine “unum purum nihil” come scriveva Eckart, e ogni pagina, ogni parola aveva una piccola nota di lato in rosso o in blu, come si faceva una volta. L’orto è un contenitore incontinente per Marco, di cui attraverso la poesia, si è liberato, vivendo la passione, la morte e riconquistando così la vita vera, il linguaggio di nascita. La prima grande virtù dell’uomo è la verità (secondo alcuni filologi deriva dalla radice iranica ver che significa fiducia realtà). Se noi riusciamo ad agire in modo da suscitare la fiducia degli altri, e al tempo stesso ad avere fiducia negli altri, forse potremo risollevarci dalla nostra condizione che sta cedendo al Nulla. Il libro di Marco è attraversato da un implacabile freddo e il suo invito è a rompere il guscio d’isolamento, che non è materiale ma una volontaria reclusione dell’io. La passione non è la cecità di lasciarsi prendere da un’urgenza, ma patire, cioè vivere profondamente e dare spessore alla storia, ponendo un freno al frenetico correre, in modo da fermarci a riflettere su noi stessi, poichè l’uomo è libero e vive in quanto trascende con il proprio pensiero la stessa vita immediatamente vissuta, quando pensa la Vita.