Trionfa al Verdi l’opera firmata da Franco Zeffirelli e Daniel Oren con un cast appena sufficiente su cui hanno brillato incontrastate le voci di Hui He e Franco Vassallo.
L’ Aida non è un’opera di tutto riposo, la cui valutazione si sia ormai cristallizzata in un giudizio definitivo.
Nonostante la sua enorme popolarità, Aida è un’opera che si interroga ancora, e ad ogni ripresa ci si va con l’animo aperto alla possibilità di modificare le proprie opinioni, con l’intenzione di verificare impressioni di cui non si è sicurissimi.
Dal rango altissimo che le assegnava naturalmente la sua situazione cronologica, di massimo capolavoro verdiano prima di Otello e Falstaff, l’opera è a poco a poco scaduta.
Di qui la speranza che si ripone sempre nel fattore esecutivo, che magari riesca talvolta ad arrestare lo sgretolamento di questo idolo.
Di qui la “fluidità” persistente della nostra posizione critica verso l’opera e l’interesse per questa prima salernitana. Franco Zeffirelli ha firmato la regia nata per il centenario di Verdi per il teatrino di Busseto: per chi aveva magari sperato in un’Aida diversa l’impressione è forse quella di un’occasione mancata.
E’ certamente arduo pretendere da Franco Zeffirelli un’Aida intimista ma nella componente musicale era proprio quello che si doveva puntare a fare, riscattando il capolavoro verdiano dallo stereotipo trionfale, facendoci ascoltare quella che vorremmo chiamare l’Aida di Aida: l’Aida che nel percorso drammatico fondato sul conflitto tra desiderio e ethos rappresenta un culmine sofisticato (anche per l’avvenuta assimilazione e superamento da parte di Verdi delle novità wagneriane) in cui la lacerazione dell’eroina (un’eroina dal cui esotismo Verdi trae immenso profitto per ombreggiature misteriose) è tratteggiata da Verdi in tono musicalmente mosso, ardito, indagatore, nei due grandi monologhi di Aida (Ritorna vincitor!… E dal mio labbro uscì l’empia parola!; O cieli azzurri) e soprattutto nella magistrale invenzione e costruzione del duetto con il padre Amonasro.
E’ stata costruita una convincente scena per l’interno del tempio del I atto e si è trovato anche una buona soluzione anche per il meccanismo tombale dell’ultimo atto.
Sono mancate, com’era prevedibile, nella scena del terzo “le rive del Nilo”: la natura non cooperava per niente, col suo incanto voluttuoso, alla seduzione di Aida, non luce di stelle e di luna che facesse luccicare “del Nilo i cupi vortici”, mentre raffinato è risultato l’esotismo “ottocentesco” delle stanza di Amneris.
Un atto d’amore, questo di Zeffirelli, per un’idea tradizionale della messinscena operistica, non senza qualche tocco da kolossal, e per un’antichità voluttuosamente imprecisa come quelle sacerdotesse incartate in oro che nella scena del tempio di Vulcano a Menfi dipananti una coreografia da dea dalle molte braccia, più Kalì che Iside.
Abbiamo ascoltato l’Aida nel primo dei due cast proposti, con protagonista, il giovane soprano cinese He Hui, un’ Aida intensa ed emozionante che ha realmente il fascino vocale, la morbidezza, le ombre (insolitamente belle e seducenti infatti le note basse), la presenza del personaggio (tanto più che la consueta tinta marrone sui suoi tratti orientali produceva un esotismo insolito ma più vero, evocante Gauguin); non ha mancato, vocalmente e sul piano della recitazione, nessuna delle grandi occasioni, riuscendo in particolare nel grande dialogo con il padre Amonasro, l’eccellente baritono Franco Vassallo.
Buona la prova del coro istruito da Luigi Petrozziello, così come quella della ballerina Sara Ricciardelli, protagonista della coreografia di Luc Bouy nel tempio di Vulcano, unico balletto salvatosi dai 40 minuti di tagli, interprete di un nero spirito di morte e di eternità, che ricompare alla fine per raccogliere le anime degli infelici innamorati, mentre gli altri ruoli principali sono rimasti un bel po’ sotto queste due stelle della compagnia.
Il Radames di Carlo Ventre ha certamente buone doti vocali ma manca della mutevolezza del timbro, specchiante le fluttuazioni dell’anima del soldato e ha rivelato anche qualche pecca d’intonazione nel moonlight del terzo atto; Anna Smirnova, ha timbro scuro e grande volume, ma la linea di canto fuori controllo e la debole tecnica hanno schizzato un’Amneris senza sfumature.
Insieme al felice ritorno del soprano cinese Hui He e alla sorpresa dell’Amonasro di Franco Vassallo, uno dei pochi acquisti di questa fastosa esecuzione in miniatura, che per il resto non ha cancellato le rughe segnate dal tempo sull’ineguale spartito verdiano, è stato il rilievo d’alcuni momenti buoni dello strumentale: non si tratta della colorazione suggestiva ed esotica del corno inglese e del flauto, nella scena notturna sul Nilo, né dello splendore decorativo, delle scene di massa, ma in particolare d’alcuni veri e propri lampeggiamenti drammatici, specialmente di ottoni e degli archi, nei momenti culminanti dell’azione, che costituiscono un anticipo saltuario al vero e proprio espressionismo strumentale di Otello.
Sono aspetti effimeri e balenanti che solo l’esecuzione d’una buona orchestra, quale sta diventando la Filarmonica Salernitana “G.Verdi”, può mettere in luce, anche se a volte si è superata la soglia “bandistica”, con la formazione che ha coperto completamente i cantanti; un non piccolo merito del direttore Daniel Oren, che non si è lasciato sfuggire queste sottolineature, mentre una coordinazione più unitaria dell’interpretazione vocale, ispirata ad una precisa intuizione personale del dramma, è quanto si sarebbe ancora potuto chiedere al nostro caro direttore, per offrire alla partitura di Aida le migliori condizioni possibili per una prova di appello.
Applausi a scena aperta per tutti e tradizionale lancio di rose dalla platea e dai palchi di boccascena.
Olga Chieffi