Con l’avvento di Alfonso Menna il “Serraglio” diviene più umano. Si ricostituisco banda affidata al maestro Florio insieme all’insegnamento del sassofono e del solfeggio. L’unico pensiero affermare quello strumento che meglio stava interpretando le inquietitudini del Novecento
di OLGA CHIEFFI
Nel 1950, quando l’allora Direttore dell’Orfanotrofio Umberto I, unitamente ad Alfonso Menna, pensò bene di riorganizzare la banda con alunni ed ex studenti, a Franco Florio venne affidato il duplice ruolo di 1° sax della compagine e l’insegnamento di teoria e solfeggio e di saxofono. A partire da questo momento cominciò a pensare che lo strumento dovesse avere maggior considerazione e aspirare al suo insegnamento in Conservatorio, nel Sud di un’ Italia che usciva disastrata dalla guerra, ma che voleva ricostruire fortemente la propria dignità. La sua convinzione era talmente forte che, quando nel 1953, la Scuola di Musica dell’Orfanotrofio, sotto la direzione di Domenico D’Ascoli, divenne Liceo Musicale pareggiato “Giuseppe Martucci”, rifiutò l’insegnamento, per così dire, “sicuro” di teoria e solfeggio a favore della cattedra, non ancora riconosciuta, di saxofono. Intanto, iniziò un fitto epistolario con i colleghi francesi, in particolare con Marcel Mule, conosciuto a Napoli in occasione del celeberrimo concerto con il suo quartetto. Venendo a conoscenza, dallo stesso, del programma di studi del corso di saxofono adottato presso il Conservatorio di Parigi, stilò anch’egli un programma di studi originale, non più, quindi, ricavato dal “saccheggio” degli studi per flauto, oboe, violino e clarinetto. Con lo scopo, poi, di ottenere il riconoscimento della cattedra, incise alcuni concerti e studi e inviò la registrazione, con precise relazioni annesse, al Ministero della Pubblica Istruzione.
In previsione dell’imminente passaggio a sezione staccata del Conservatorio di Napoli, nel 1959 il ministero decise di ispezionare il liceo salernitano. Tra le diverse classi di strumento esaminate, quella di sax non venne però presa minimamente in considerazione.
Florio, a dir poco risentito, scrisse immediatamente una lettera al Ministero della Pubblica Istruzione, esaltando nella stessa il ruolo di questo nuovo strumento in orchestra, nella musica solistica e da camera, degno inoltre di occupare, oramai, un posto in pianta stabile nei Conservatori italiani. Due mesi dopo, il Maestro Jacopo Napoli, direttore del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e allora Ispettore dei conservatori d’Italia, fu inviato ad ispezionare nuovamente il liceo, prestando particolare attenzione proprio alla classe di saxofono. Il concerto di Henri Tommasi e alcuni passi tratti da altri concerti eseguiti dallo stesso Florio con “ammaliante e rotondissimo suono” come recitano cronache dell’epoca, convinsero pienamente il M° Napoli. Nel complimentarsi con lui lo stesso gli assegnò l’incarico. Ricerca, sperimentazione timbrica, esuberanza, versatilità di un arco e potenza di un ottone, questa l’intenzione del suono del sassofono, nel magistero del M° Francesco Florio, un assunto, questo, che appartiene alla intera scuola napoletana dei fiati, tesa ad un suono “vocale”, aperto e morbido, che ha ispirato, nel tempo, soli di avvincente lirismo e virtuosismo. Il violoncellista Amedeo Baldovino indicò il suo strumento il celebre Stradivari Mara del 1711, salvatosi da un naufragio, quale educatore di umiltà, confidente e interprete dell’arco della vita, fonte di serenità, un pensiero universale che avrebbe fatto proprio Francesco Florio, sottomesso unicamente all’arte e alla musica.
Il Maestro, ne ricordiamo l’infinita umanità e la severità maniacale della didattica (il figlio Antonio “Tonino” ci rivelò di non essere mai stato capace di portare a termine uno studio da capo a fondo senza essere fermato) e la caparbietà nell’affermare la classicità e l’importanza di questo strumento, sino alla sua scomparsa, avvenuta il 21 novembre del 1993 (per quelle coincidenze cui noi crediamo, i funerali si svolsero nel giorno di Santa Cecilia) si è dedicato all’insegnamento, continuando a comporre e cercando di accendere una scintilla negli allievi, nei giovani che si avvicinavano alla musica, la volontà di andare oltre il suono, il ritmo, oltre se stessi, inseguendo quel profumo del rischio, della sfida e dell’azzardo che rende memorabile un’esecuzione e la vita stessa.