Trionfo al teatro Ghirelli per la nuova mise en scene di Pièce noire di Enzo Moscato, affidato alla regia di Giuseppe Affinito
di MARIANGELA STANZIONE
“Tutti hanno un’identità. Tutti devono averne una, precisa, qualunque essa sia. Signora… chi sono io? Chi è veramente Desiderio?”
La psicologia, l’onirismo, l’impalpabilità; la vertigine, i sentimenti torbidi, il thriller; gli angoscianti orizzonti femminei; la violenza subdola e sottaciuta. A quattordici anni dalla prima regia dell’autore, torna in scena Pièce noire (canaria) di Enzo Moscato, testo che gli valse il Premio Riccione nel 1985 imponendolo all’attenzione del panorama drammaturgico italiano. Questa produzione, diretta dal giovanissimo Giuseppe Affinito (in scena Desiderio) ha debuttato quasi un anno fa alla Sala Assoli, Napoli, ed è approdata al Teatro Ghirelli
Di debutto non si tratta solo per Affinito nel ruolo di metteur-en-scene: è questo il termine cardine della fosca fiaba contemporanea, messa in tensione fra la necessità di diventare secondo le aspettative e precipitare in quello che si è diventati. Ingabbiato in una Napoli nella sua accezione portuale, convergenza di internazionalità da secondo dopoguerra, “Bangkok più che Partenope”, questo sogno appartiene innanzitutto a La Signora, ex prostituta, ora proprietaria di locali notturni sul lungomare, che sul figlio adottivo Desiderio proietta il suo anelito di immacolatezza e di sublime perfezione, nel tentativo di mondarsi di un passato traumatico che l’ha portata al figlicidio. A differenza di lui, non reclusi in casa nei Quartieri Spagnoli, tutt’altro che vergini, ma altrettanto ermafroditi (figure ricorrenti nella scrittura dell’autore) sono i suoi fratelli Cupidigia e Bramosia, rinominatisi in arte Shangay Lil e Hong-Kong Suzy, per il piacere dei clienti di una madre iniqua e ipocrita: esperimenti malriusciti della sua inquietante serie di evirazioni; mezzi angeli la cui schietta identità, nella loro briosa sciatteria da sciantose, Desiderio invidia, e il cui status di individualità indipendenti egli non raggiungerà mai-nemmeno all’indomani del traumatico debutto come performer e della scoperta delle nefandezze della Signora, della quale si scopre irriducibile doppio. Sfidare gli equilibri di potere da lei orditi gli risulterà fatale, così come qualsiasi canarino cresciuto in cattività non può esistere fuori dalla sua gabbia.
Attraverso un raffinato plurilinguismo, contrappuntato dallo slang dei bassifondi a sottolineare quanto la lingua, più che strumento di comunicazione, sia struttura del pensiero e matrice di forme del vivere si apre uno squarcio onirico, inquietante e conturbante al contempo, sulla capacità di violenza fisica e psicologica di cui i dimenticati dalla società, nella lotta alla sopravvivenza, fanno alienato uso per tenersi a galla nel sogno di una purificazione dalla materia. Contaminazione ed eclettismo sono la risposta stilistica a queste aspirazioni dal basso: ecco quindi che dalla scrittura balza fuori, come una molla, un exploit di perle e drappi e trasparenze bianchi, rosa, acquamarina, contro corsetti incrostati di paillettes, reggicalze, reti, pellicce, guinzagli, neon e stampe animalier; ecco che alla canzone napoletana risponde, ma mixato, il Tchaikovsky del Lo schiaccianoci; ecco che a gravi voci di donna variamente altezzose e prosaiche si alternano leggiadre timidezze e stridule sfacciataggini. Necessario il gigioneggiante indulgere in manierismi queer che le drammaturgie di Moscato reclamano (deliziosa la scelta del vogueing come sfottò alle spalle della matrona); salvo il fatto a moine, ancheggi, bronci, affettazioni della voce non si possa completamente affidare la costruzione del personaggio, che rischia di risultare appiattito contro un vuoto stilema di superficie laddove non si facciano corrispondere l’azione della parola e quella del corpo è il caso dei tre adottati (non a caso più efficaci la delucidazione di Bramosia alla Signora sulla sorte del figlio prediletto, e il più etereo Desiderio fino al momento della trasfigurazione in palcoscenico). Meravigliosa Anita Mosca (La Signora), quasi partorita non da ventre di donna ma dalla penna di Moscato.
Ancora un po’ acerba, dunque, nella direzione degli attori, la regia, ma promettente, fresca e soprattutto palesemente mossa da un sincero amore per il teatro e, soprattutto, per un drammaturgo universalmente riconosciuto tra le colonne portanti non solo della nuova drammaturgia napoletana ma italiana tout-court.